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Pietro Verri |
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Biografia
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Testi |
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Osservazioni
sulla tortura
e singolarmente sugli
effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si
attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 Indice
I.
Introduzione II.
Idea della pestilenza che devastò Milano nel 1630 III.
Come sia nato il
processo contro Guglielmo Piazza commissario della sanità
V.
Delle opinioni e metodi della procedura criminale in
quella occasione
VI.
Della insidiosa cavillazione che si usò nel processo
verso di alcuni infelici VII.
Come terminasse il processo delle unzioni pestifere VIII.
Se la tortura sia un tormento atroce IX.
Se la tortura
sia un mezzo per conoscere la verità X.
Se le leggi e la
pratica criminale risguardino la tortura come un mezzo per avere la verità
XI.
Se la tortura
sia un mezzo lecito per iscoprire la verità
XII.
Uso delle
antiche nazioni sfilla tortura
XIII.
Come siasi
introdotto l'uso di torturare ne' processi criminali
XIV.
Opinione d'alcuni rispettabili scrittori intorno la
tortura, ed usi odierni di alcuni stati
XV.
Alcune obbiezioni che si fanno per sostenere l'uso della
tortura
XVI.
Conclusione I. Introduzione Fra
i molti uomini d'ingegno e di cuore, i quali hanno scritto contro la pratica
criminale della tortura e contro l'insidioso raggiro de' processi che
secretamente si fanno nel carcere, non ve n'è alcuno il quale abbia fatto
colpo sull'animo dei giudici; e quindi poco o nessuno effetto hanno essi prodotto.
Partono essi per lo più da sublimi principj di legislazione riserbati alla
cognizione di alcuni pochi pensatori profondi, e ragionando sorpassano la
comune capacità; quindi le menti degli uomini altro non ne concepiscono se
non un mormorìo confuso, e se ne sdegnano e rimproverano il genio di novità,
la ignoranza della pratica, la vanità di voler fare il bello spirito, onde
rifugiandosi alla sempre venerata tradizione de' secoli, anche più fortemente
si attaccano ed affezionano alla pratica tramandataci dai maggiori. La verità
s'insinua più facilmente quando lo scrittore postosi del pari col suo lettore
parte dalle idee comuni, e gradatamente e senza scossa lo fa camminare e
innalzarsi a lei, anzi che dall'alto annunziandola con tuoni e lampi, i quali
sbigottiscono per un momento, indi lasciano gli uomini perfettamente nello
stato di prima. Sono
già più anni, dacché il ribrezzo medesimo che ho per le procedure criminali
mi portò a volere esaminate la materia ne' suoi autori, la crudeltà e
assurdità de' quali sempre più mi confermò nella opinione di riguardare come
una tirannia superflua i tormenti che si danno nel carcere. Allora feci molte
annotazioni sul proposito, le quali rimasero oziose. Parimenti già da più
anni riflettendo io al fatto, che fece diroccare la casa di un cittadino e
piantarvi per pubblico decreto la colonna infame, dubitai da principio
se fosse possibile il delitto, per cui vennero condannati molti infelici,
indi decisamente fui persuaso essere impossibile e in fisica e in morale che
si diano unzioni artefatte maneggevoli impunemente dall'autore, le quali al
solo tatto esterno, dopo essere state all'aria aperta sulle pareti delle
strade, cagionino la pestilenza, e che possano più uomini collegarsi affine
di dare la morte indistintamente a tutta la loro città. Mi venne a caso fra
le mani il voluminoso processo manoscritto che riguardava quel fatto, e
dall'attenta lettura mi trovo convinto sempre più nella mia opinione. Questo
libro è nato dalle osservazioni fatte e sugli autori criminalisti e sul fatto
delle unzioni venefiche. Cerco
che il lettore imparziale giudichi se le mie opinioni sieno vere o no. Io mi
asterrò dal declamare, almeno me lo propongo; e se la natura mi farà sentir
la sua voce talvolta, e la riflessione mia non accorrerà sempre a soffocarla,
ne spero perdono: procurerò di reprimerla il più che potrò, giacché non cerco
di sedurre né me stesso né il lettore, cerco di camminare placidamente alla
verità. Non aspetto gloria alcuna da quest'opera. Ella verte sopra di un
fatto ignoto al resto dell'Italia; vi dovrò riferire de' pezzi di processo, e
saranno le parole di poveri sgraziati e incolti che non sapevano parlare che
il lombardo plebeo; non vi sarà eloquenza o studio di scrivere: cerco
unicamente di schiarire un argomento che è importante. Se la ragione farà
conoscere che è cosa ingiusta, pericolosissima e crudele l'adoperar le
torture, il premio che otterrò mi sarà ben più caro che la gloria di aver
fatto un libro, avrò difesa la parte più debole e infelice degli uomini miei fratelli;
se non mostrerò chiaramente la barbarie della tortura, quale la sento io, il
mio libro sarà da collocarsi fra i moltissimi superflui. In ogni evento,
sebbene anche ottenga il mio fine, e che illuminatasi la opinione pubblica
venga stabilito un metodo più ragionevole e meno feroce per rintracciare i
delitti, allora accaderà del mio libro come dei ponti di legno che si
atterrano, innalzata che sia la fabbrica, e come avvenne al sig. marchese
Maffei, che distruggendo la scienza cavalleresca e annientandone gli
scrittori, annientò pure il suo libro, che ora nessuno più legge perché non
esiste l'oggetto per cui era scritto. La
maggior parte de' giudici gradatamente si è incallita agli spasimi delle
torture per un principio rispettabile, cioè sacrificando l'orrore dei mali di
un uomo solo sospetto reo, in vista del ben generale della intiera società.
Coloro che difendono la pratica criminale, lo fanno credendola necessaria
alla sicurezza pubblica, e persuasi che qualora si abolisse la severità della
tortura sarebbero impuniti i delitti e tolta la strada al giudice di
rintracciarli. Io non condanno di vizio chi ragiona così, ma credo che sieno
in un errore evidente, e in un errore di cui le conseguenze sono crudeli.
Anche i giudici che condannavano ai roghi le streghe e i maghi nel secolo
passato, credevano di purgare la terra da' più fieri nemici, eppure
immolavano delle vittime al fanatismo e alla pazzia. Furono alcuni benemeriti
uomini i quali illuminarono i loro simili, e, scoperta la fallacia che era invalsa
ne' secoli precedenti, si astennero da quelle atrocità e un più umano e
ragionevole sistema vi fu sostituito. Bramo che con tal esempio nasca almeno
la pazienza di esaminar meco se la tortura sia utile e giusta: forse potrò
dimostrare che è questa una opinione non più fondata di quello lo fosse la
stregheria, sebbene al par di quella abbia per sé la pratica de' tribunali e
la veneranda tradizione dell'antichità. Comincierò
dal fatto della colonna infame, poscia passerò a trattare in massima la
materia; ma prima conviene dare un'idea della pestilenza che rovinò Milano
nel 1630. II. Idea della pestilenza che devastò Milano nel 1630 Il
Ripamonti, cattivo ragionatore, buon latinista, cronista inesatto, ma sincero
espositore delle cose de' suoi tempi, ha scritta la storia della pestilenza
accaduta al tempo appunto in cui viveva, e fa una vivissima compassione la
sola idea dell'esterminio, a cui soggiacque la nostra patria in quel tempo.
Si tratta niente meno che della distruzione di due terze parti de' cittadini.
La crudelissima pestilenza fu delle più spietate che rammemori la storia.
Alla distruzione fisica si accoppiarono tutti i più terribili disastri
morali. Ogni legame sociale si stracciò; niente era più in salvo, né le
sostanze, né la vita, né l'onestà delle mogli; tutto era esposto alla
inumanità, e alla rapina di alcuni pessimi uomini, i quali tanto ferocemente
operavano nel seno della misera lor patria spirante, come appena un popolo
selvaggio farebbe nel paese nemico. I Monati, classe di uomini trascelta
per assistere gli ammalati. invadevano le case; trasportavano le robe che vi
trovavano; violavano le figlie e le consorti impunemente sotto gli occhi
dell'agonizzante padre o marito; obbligavano a redimersi colla somma di
danaro che lor piaceva i parenti, colla minaccia di trasportare i figli o le
spose, benché sani, al lazzaretto. I giudici tremanti per la propria vita
ricusavano ogni ufficio. Varj ladroni, fingendosi Monati, invadevano e
saccheggiavano ogni cosa: tale è lo spettacolo che ci viene descritto dal
Ripamonti, che pianse siccome egli attesta, più e più volte in vista di sì
orrende calamità. Tali erano i costumi, tale era lo spirito che agitò i
nostri antenati in quel tempo, che forse troppo incautamente taluni
vorrebbero far ritornare coi loro voti. La
storia di questa sciagura conviene cominciarla da un dispaccio, che dalla
corte di Madrid venne al marchese Spinola, allora governatore. Il dispaccio
era firmato dal re Filippo IV. Rara cosa assai era in que' tempi la venuta di
un dispaccio, ed era questo un avvenimento che occupava tutta la città,
poiché non si partiva dalla corte un reale rescritto se non per gravissime
cagioni. Il dispaccio avvisava il governatore essere stati osservati in
Madrid quattro uomini, che avevan portati degli unguenti per recare la
pestilenza in quella reale città, essere costoro fuggiti, non sapersi in qual
parte si fossero essi rivolti per recarvi le malefiche unzioni; quindi se ne
avvisava il governatore, acciocché attentamente vegliasse in difesa anche del
Milanese. Hae litterae, dice il Ripamonti, quia majestatis ipsius
chirographo subsignatae fuerunt, grande sane momentum inclinandis ad pessima
quaeque credenda animis facere potuerunt. [Queste lettere, essendo
firmate di propria mano dal re, furono di gran peso sugli animi de'
cittadini, già proclivi a credere ogni più nefando delitto]. In que' tempi
l'ignoranza delle cose fisiche era assai grande. Taluno avrà pensato allora:
è egli possibile il formare una materia che toccandosi dia la pestilenza? Se
anche sia possibile, potrà un uomo portarla seco senza caderne vittima?
Quattro uomini collegansi per un tale viaggio, e girano il mondo colla
pestilenza nelle ampolle per divulgarla! A qual fine? Per quale utilità? Ma i
pochi che avranno così pensato, non avranno avuto ardire di palesarlo;
l'autorità di un dispaccio, l'opinione popolare erano terribili contrasti che
esponevano a troppo grave pericolo l'uomo che avesse annunziata questa
verità. Si sparse adunque l'opinione e il sospetto generalmente di queste malefiche
unzioni. Sappiamo
dalla storia come fossero allora governati i popoli sotto Filippo IV. La
pestilenza della Germania per la Valtellina liberamente entrò nel Milanese,
portatavi dalle truppe imperiali che transitarono per innoltrarsi a Mantova,
poco dopo la vociferazione del dispaccio. Ma l'opinione comune del popolo
volle ostinatamente piuttosto credere essere la vociferata pestilenza
un'artificiosa invenzione de' medici per acquistar lucro, anzi che esaminare
e chiarire il fatto. Era forse una tal diffidenza l'effetto della lunga serie
d'inganni sofferti dalla classe superiore. Inutilmente i medici più istruiti
divulgavano le prove degli ammalati che avevano veduti morire di pestilenza,
che la plebe sempre li risguardava come autori di una malignamente immaginata
diceria. Celebre è il fatto accaduto al venerabile nostro Ludovico Settala,
uomo sommo per que' tempi, non tanto per l'erudizione, la coltura, la scienza
medica e le cognizioni di storia naturale di cui il nostro museo ebbe fra i
contemporanei d'Europa il primato, quanto per la nobiltà e virtù del suo
animo, che disinteressatamente e instancabilmente usò dei talenti a beneficio
del popolo. Questi mentre cavalcava, siccome allora era costume de' medici,
venne attorniato tumultuosamente da una folla di uomini, donnicciuole,
fanciulli, ed ogni classe di plebaglia, indi villanissimamente insultato
quale principale autore della opinione che nella città vi fosse la
pestilenza, che le turbe esclamavano essere unicamente ne' peli della di lui
barba: Ita gravissimus optimusque senex, et antistes sapientiae Septalius,
qui innumeris pene mortalibus vitam excellentia artis, quique multis etiam
liberalitate sua subsidia vitae dederat, ob petulantiam, stoliditatemque
multitudinis periculum adiit [In tal guisa l'ottimo vecchio. che aveva
salvata la vita ad un gran numero di persone colla perizia dell'arte e col
largire il proprio denaro, corse un grave pericolo per la stolidaggine e la
petulanza del volgo]. Così il Ripamonti. Convenne
finalmente col crescere della peste e il moltiplicarsi giornalmente il numero
de' morti disingannare il popolo, e persuaderlo che il malore purtroppo era
nella città, e laddove i discorsi nessun effetto producevano, si dovettero
far manifesti sopra gran carri gli ammassi de' cadaveri nudi aventi i bubboni
venefici, e così per le strade dell'affollata città girando questo spettacolo
portò infine la convinzione negli animi, e forse propagò più estesamente la
pestilenza. Allora fu che il popolo furiosamente si rivolse ad ogni eccesso di
demenza. Nei disastri pubblici l'umana debolezza inclina sempre a sospettarne
cagioni stravaganti anzi che crederli effetti del corso naturale delle leggi
fisiche. Veggiamo i contadini attribuir la gragnuola non già alle leggi delle
meteore, ma piuttosto alle streghe. Veggiamo i saggi Romani istessi al tempo,
in cui erano rozzi, cioè l'anno di Roma 423 sotto Claudio Marcello e Cajo
Valerio, attribuire la pestilenza, che gli afflisse a' veleni apprestati da
una troppo inverosimile congiura di matrone romane: come Livio lib. VIII,
cap. XII, Dec. I: Proditum falso esse venenis absumptos, quorum mors
infamem annum pestilentia fecerit [Falsamente si disse che erano morti
avvelenati coloro la cui morte invece fu provocata, in quel terribile anno,
dalla pestilenza]. Veggiamo in Napoli, pure nel secolo scorso, cioè nel 1656,
attribuita la pestilenza agli Spagnuoli o allo stesso viceré per rovinare il
popolo con polveri pestifere, e si credette “che per la città andavano
girando persone con polveri velenose e che bisognava andar di loro in traccia
per isterminarle; così in varie truppe uniti andavan cercando questi sognati
avvelenatori, ed avendo incontrati due soldati del torrione del Carmine,
affin di attaccar brighe che poi finissero in tumulti, avventaronsi sopra di
essi, imputandoli di aver loro trovato addosso la sognata polvere. Al rumore
essendo accorsa molta gente, per buona sorte vi capitò ancora un uomo
dabbene, il quale con soavi parole e moderati consiglj li persuase che
dassero nelle mani della giustizia uomini cotanto scellerati, affine, oltre
del supplizio che di lor si sarebbe preso, si potesse da essi sapere
l'antidoto al veleno, e con tale industria gli riuscì di salvarli; ma appena
saputosi che quei due soldati uno era di nazione Francese e l'altro Portoghese,
ed uscita anche voce che cinquanta persone con abiti mentiti andavan
spargendo le polveri velenose, si videro maggiori disordini; poiché tutti
coloro che andavan vestiti con abiti forastieri, e con scarpe o cappelli o
altra cosa differente dal comune uso de' cittadini, correvan rischio della
vita. Per acchetar dunque la plebe bisognò far morire sopra la ruota Vittorio
Angelucci reo per altro di altri delitti, tenuto costantemente dal volgo per
disseminatore di polveri, ma nell'istesso tempo fu presa rigorosa vendetta
degl'inventori di questa favola, molti di essi essendosene stati in oscure
carceri condotti, cinque di loro in mezzo al mercato sulle forche perderono
ignominiosamente la vita, e in cotal guisa furono i rumori quietati”: così
Giannoneal lib. XXXVII, cap. VII. Non è dunque da meravigliarsi se anche in
Milano, in mezzo a tanta e sì crudele sciagura, sotto un così maligno
flagello, se ne sospettasse volgarmente la cagione nella rnalignità degli
uomini, e si credesse verificato il danno predetto del reale dispaccio e
prodotto lo sterminio dalle malefiche unzioni. Simili opinioni, quanto sono
più stravaganti, tanto più trovano credenza; perché appunto di uno
stravagante effetto se ne crede stravagante la cagione, e più si gode nel
trovarne l'origine nella malizia dell'uomo, che si può contenere, anzi che
nella implacabile fisica che si sottrae alle umane istituzioni. In quel
secolo poi sappiamo quale fosse la coltura degli studj, unicamente rivolti
alle parole ed ai delirj della immaginazione. L'opinione quindi delle unzioni
malefiche divenne generalmente la trionfante: ogni macchia che apparisse
sulle pareti era un corpo di delitto: ogni uomo che inavvedutamente stendesse
la mano a toccarle era a furore di popolo strascinato alle carceri, quando
non fosse massacrato dalla stessa ferocia volgare. Il Ripamonti riferisce due
fatti, dei quali è stato testimonio oculare. Uno, di tre Francesi viaggiatori
i quali esaminando la facciata del duomo toccarono il marmo, e furono
percossi malamente e strascinati in carcere assai mal conci; l'altro d’un
povero vecchio ottuagenario di civile condizione, il quale prima di
appoggiarsi alla panca nella chiesa di S. Antonio levò, col passarvi il
mantello, la polvere: quell'atto, credutosi una unzione, inferocì il popolo
nella casa del Dio di mansuetudine, e presolo pe' pochi capegli e per la
barba a pugni, calci ed ogni genere di percosse, non l'abbandonò se non
poiché lo rese cadavere. Tale era lo spirito di que' tempi. La
pestilenza andava sempre più mietendo vittime umane, e si andava disputando
sulla origine di quella anziché accorrervi al riparo. Gli uni la facevano
discendere da una cometa che fu in quell'anno osservata nel mese di giugno truci
u1tra solitum etiam facie [d'aspetto più spaventevole ancora dell'usato],
come scrive il Ripamonti. Altri ne davano l'origine agli spiriti infernali, e
v'era chi attestava d'avere distintamente veduto giungere sulla piazza del
duomo un signore strascinato da sei cavalli bianchi in un superbo cocchio, e
attorniato da numeroso corteggio. Si osservò che il signore aveva una
fisonomia fosca ed infuocata; occhi fiammeggianti, irsute chiome e il labbro
superiore minaccioso. Entrato questi nella casa, ivi furono osservati tesori,
larve, demonj e seduzioni d'ogni sorta, per adescare gli uomini a prendere il
partito diabolico: di tali opinioni se ne può vedere più a lungo la storia
nel citato Ripamonti. Fra tai delirj si perdevano i cittadini anche più
distinti e gli stessi magistrati; e in vece di tenere con esatti ordini segregati
i cittadini gli uni dagli alti, in vece d'intimare a ciascuno di restarsene
in casa, destinando uomini probi in quartieri diversi per somministrare
quanto occorreva a ciascuna famiglia, rimedio il solo che possa impedire la
comunicazione del malore, e rimedio che adoperato da principio avrebbe forse
con meno di cento uomini placata la pestilenza; in vece, dico, di tutto ciò.
si è comandata con una mal'intesa pietà una processione solenne, nella quale
si radunarono tutti i ceti de' cittadini, e trasportando il corpo di S. Carlo
per tutte le strade frequentate della città, ed esponendolo sull'altar
maggiore del duomo per più giorni alle preghiere dell'affollato popolo,
prodigiosamente si comunicò la pestilenza alla città tutta, ove da quel
momento si cominciarono a contare sino novecento morti ogni giorno. In una
parola, tutta là città immersa nella più luttuosa ignoranza si abbandonò ai
più assurdi e atroci delirj, malissimo pensati furono i regolamenti,
stranissime le opinioni regnanti, ogni legame sociale venne miseramente
disciolto dal furore della superstiziosa credulità; una distruttrice anarchia
desolò ogni cosa, per modo che le opinioni flagellarono assai più i miseri
nostri maggiori di quello che lo facesse la fisica in quella luttuosissima
epoca; si ricorse agli astrologi, agli esorcisti, alla inquisizione, alle
torture, tutto diventò preda della pestilenza, della superstizione, del
fanatismo e della rapina; cosicché 1a proscritta verità in nessun luogo poté
palesarsi. Cento quaranta mila cittadini Milanesi perirono scannati dalla
ignoranza. III. Come sia nato il processo contro Guglielmo Piazza commissario della sanità Mentre
la pestilenza inferiva più che mai, dopo la processione già detta, la mattina
del giorno 21 giugno 1630 una vedova per nome Caterina Troccazzani Rosa, che
alloggiava nel corritore che attraversa la Vedra de' cittadini,
vide dalla finestra Guglielmo Piazza che dal Carrobio entrò nella contrada, e
accostato al muro dalla parte dritta entrando, passò sotto il corritore, indi
giunto alla casa di S. Simone, ossia al termine della casa Crivelli che
allora aveva una pianta grande di lauro, ritornò indietro. Lo stesso fu
osservato da altra donna per nome Ottavia Persici Boni. La prima di queste
donne disse nell'esame, che il Piazza “a luogo a luogo tirava con le mani
dietro al muro”: l'altra dice, che alla muraglia del giardino Crivelli “aveva
una carta in mano, sopra la qual mise la mano dritta, che mi pareva che
volesse scrivere, e poi vidi che levata la mano dalla carta la fregò sopra la
muraglia”. Attestano
che ciò accadde alle ore otto, che era giorno fatto, che pioveva. Le due
donne sparsero nel vicinato immediatamente il sussurro di aver veduto chi
faceva le unzioni malefiche, le quali in processo poi la Troccazzani Rosa
disse “aveva veduto colui a fare certi atti attorno alle muraglie, che non mi
piacciono niente”. La vociferazione immediatamente si divulgò da una bocca
all’altra, come risulta dal processo; si ricercò se le muraglie fossero
sporche, e si osservò che dall'altezza di un braccio e mezzo da terra vi era
del grasso giallo, e ciò singolarmente sotto la porta del Tradati, e vicino
all’uscio del barbiere Mora. Si abbruciò paglia al luogo delle unzioni, si
scrostò la muraglia, fu tutto il quartiere in iscompiglio. Prescindasi
dalla impossibilità del delitto. Niente è più naturale che il passeggiare
vicino al muro allorché piove in una città come la nostra, dove si resta al
coperto della pioggia. Un delitto così atroce non si commette di chiaro
giorno, nel mente che i vicini dalle finestre possono osservare; niente è più
facile che lo sporcare quante muraglie piace col favore della notte. Su di
questa vociferazione il giorno seguente si portò il capitano di giustizia sul
luogo, esaminò le due nominate donne, e quantunque né esse dicessero di avere
osservato che il muro sia rimasto sporco dove il Piazza pose le mani, né i
siti ne' quali si era osservato l'unto giallo corrispondessero ai luoghi
toccati, si decretò la prigionia del commissario della sanità Guglielmo
Piazza. Se
lo sgraziato Guglielmo Piazza avesse commesso un delitto di tanta atrocità,
era ben naturale che attento all'effetto che ne poteva nascere e istrutto del
rumore di tutto il vicinato del giorno precedente, non meno che della solenne
visita che il giorno 22 vi fece ai luoghi pubblici sulla strada il capitano
di giustizia, si sarebbe dato a una immediata fuga. Gli sgherri lo trovarono
alla porta del presidente della sanità, da cui dipendeva, e lo fecero
prigione. Visitossi immediatamente la casa del commissario Piazza, e dal
processo risulta che non vi si trovarono né ampolle, né vasi, né unti, né
danaro, né cosa alcuna che desse sospetto contro di lui Appena
condotto in carcere Guglielmo Piazza fu immediatamente interrogato dal
giudice, e dopo le prime interrogazioni venne a chiedergli se conosceva i
deputati della parrocchia, al che rispose che non li conosceva. Interrogato
se sapesse che siano stato unte le muraglie, disse che non lo sapeva. Queste
due risposte si giudicarono “bugie e inverosimiglianze”. Su queste bugie e
inverosimiglianze fu posto ai tormenti. L'infelice protestava di aver detta
la verità, invocava Dio, invocava S. Carlo, esclamava, urlava dallo spasimo,
chiedeva un sorso di acqua per ristoro; finalmente per far cessare lo strazio
disse: “Mi facci lasciar giù che dirò quello che so”. Fu posto a terra, e
allora nuovamente interrogato rispose: “Io non so niente: V. S. mi facci dare
un poco d'acqua”; su di che nuovamente fu alzato e tormentato, e dopo una
lunghissima tortura nella quale si voleva che nominasse i deputati, egli
esclamava sempre: “Ah Signore, ah S. Carlo! se lo sapessi lo direi”; poi
disperato dal martirio gridava: “Ammazzatemi, ammazzatemi”; e insistendo il
giudice a chiedergli “che si risolva ormai di dire la verità per qual causa neghi
di conoscere i deputati della parrocchia, e di sapere che siano state unte le
muraglie”, rispose quell'infelice: “La verità l'ho detta, io non so niente,
se l'avessi saputo l'avria detto; se mi vogliono ammazzare che mi ammazzino”:
e gemendo e urlando da uomo posto all’agonia persisté sempre nello stesso
detto, sinché submissa voce ripeteva di aver detta la verità, e
perdute le forze cessò d'esclamare, onde fu calato e riposto in carcere. Qual'inverosimiglianza
vi era mai nelle risposte del disgraziato Guglielmo Piazza? Egli abitava
nella contrada di S Bernardino, e non alla Vedra, poteva benissimo ignorare
un fatto notorio a quel vicinato. Che obbligo aveva quel povero uomo da saper
chi fossero i deputati della parrocchia? Che pericolo correva mai egli, se
gli avesse conosciuti, nel dirlo? Che pericolo correva mai se diceva pure di
aver saputo che fossero state unte le muraglie alla Vedra? Venne
riferito al senato l'esame fatto e il risultato dei tormenti dati a
quell'infelice: decretò il senato che il presidente della sanità e il
capitano di giustizia, assistendovi anche il fiscale Tornielli, dovessero
nuovamente tormentare il Piazza acri tortura cum ligatura canubis, et
interpollatis vicibus, arbitrio etc. [con aspra tortura, con legami di
canapa e viti intercalate, ad arbitrio]; ed è da notarsi che vi si aggiunge, abraso
prius disto Gulielmo et vestibus curiae induto, propinata etiam, si ita
videbitur praefatis praesidi ct capitaneo, potione expurgante [dopo aver
provveduto a rasare il capo al sunnominato Guglielmo, a vestirlo con abiti
curiali e, se sembrava opportuno al presidente e al capitano predetti, a
somministrargli una pozione purgativa]: e ciò perché in quei tempi credevasi
che o ne' capelli e peli, ovvero nel vestito, o persino negli intestini
tranguggiandolo, potesse avere un amuleto o patto col demonio, onde
rasandolo, spogliandolo e purgandolo ne venisse disarmato. Nel 1630 quasi
tutta l'Europa era involta in queste tenebre superstiziose. Fa
commovere tutta l'umanità la scena della seconda tortura col canape, che
dislocando le mani le faceva ripiegare sul braccio, mentre l'osso dell'omero
si dislocava dalla sua cavità. Guglielmo Piazza esclamava, mentre si
apparecchiava il nuovo supplizio: “Mi ammazzino che l'avrò a caro, perché la
verità l'ho detta”; poi, mentre si cominciava il crudelissimo slogamento
delle giunture, diceva: “Che mi ammazzino, che son qui”. Poi aumentandosi lo
strazio gridava: “Oh Dio mi, sono assassinato, non so niente, e se sapessi
qualche cosa non sarei stato sin adesso a dirlo”. Continuava e cresceva per
gradi il martirio, sempre s'instava e dal presidente della sanità e dal
capitano di giustizia, perché rispondesse sui deputati della parrocchia e
sulla scienza d'essere state unte le muraglie. Gridava lo sfortunato Guglielmo:
“Non so niente! fatemi tagliar la mano, ammazzatemi pure: oh Dio mi, oh Dio
mi!”. Sempre instavano i giudici, sempre più incrudelivano, ed egli
rispondeva esclamando e gridando: “Ah Signore, sono assassinato! Ah Dio mi,
son morto!”. Fa ribrezzo il seguire questa atroce scena! A replicate istanze
replicava sempre lo stesso, protestando di aver detto la verità, e i giudici
nuovamente volevano che dicesse la verità; egli rispose: “Che volete che
dica?”. Se gli avessero suggerito un'immaginaria accusa, egli si sarebbe
accusato; ma non poteva avere nemmeno la risorsa d'inventare i nomi di
persone che non conosceva. Esclamava; “Oh che assassinamento!”. E finalmente
dopo una tortura, durante la quale si scrissero sei facciate di processo,
persistendo egli anche con voce debole e sommessa a dire: “Non so niente, la
verità l'ho detta, ah! che non so niente”, dopo un lunghissimo e crudelissimo
martirio fu ricondotto in carcere. IV. - Come il commissario Piazza si sia accusato reo delle unzioni pestilenziali, ed abbia accusato Gian Giacomo Mora Il
Ripamonti riferisce una crudelissima circostanza, ed è, che terminata la
tortura del Piazza, i giudici ordinassero di ricondurlo in carcere colle ossa
slogate, quale era, senza rimetterle a luogo, e che l'orrore di continuare
nello spasimo abbia allora cavato di bocca l'accusa a se stesso del Piazza;
ma nel processo, che ho nelle mani, di ciò non vedo alcun vestigio. Appare da
questo, che fosse promessa al Piazza l'impunità qualora palesasse il delitto
e i complici. È assai verosimile che nel carcere istesso si sia persuaso a
quest'infelice, che persistendo egli nel negare, ogni giorno sarebbe
ricominciato lo spasimo; che il delitto si credeva certo, e altro spediente
non esservi per lui fuorché l'accusarsene e nominare i complici, così avrebbe
salvata la vita e si sarebbe sottratto alle torture pronte a rinnovarsi ogni
giorno. Il Piazza dunque chiese ed ebbe l'impunità, a condizione però che
esponesse sinceramente il fatto. Ecco perciò che al terzo esame egli
comparve, e accusandosi senza veruna tortura o minaccia d'avere unto le
muraglie, pieno di attenzione per compiacere i suoi giudici, cominciò a dire
che l'unguento gli era stato dato dal barbiere che abitava sull'angolo della
Vedra (ove attualmente sta la colonna infame) che questo unguento era giallo,
e gliene diede da tre once circa. Interrogato se col barbiere egli avesse
amicizia, rispose: “È amico, signor sì, buon dì, buon anno, è amico, signor
sì”. Quasi che le confidenze di un misfatto così enorme si facessero a
persone appena conoscenti, “amico di buon dì, buon anno”. Come poi seguì così
orribile concerto? Eccone le precise parole. I1 barbiere di primo slancio
disse al Piazza, che passava avanti la bottega “Vi ho poi da dare non so che;
io gli dissi, che cosa era? ed egli rispose: è un non so che unto; ed io
dissi: verrò poi a torlo; e così da lì a tre dì me lo diede poi”. Questo è il
principio del romanzo. Va avanti. Dice il Piazza, che allora che gli fece tal
proposizione vi erano “tre o quattro persone, ma io adesso non ho memoria chi
fossero, però m'informerò da uno che era in mia compagnia chiamato Matteo che
fa il fruttarolo e che vende gambari in Carrobio, quale io manderò a
dimandare, che lui mi saprà dire chi erano quelli che erano con detto
barbiere”. Chi mai crederà, che in tal guisa alla presenza di quattro
testimonj si formino così atroci congiure! Eppure allora si credette: I. Che la peste, che si sapeva
venuta dalla Valtellina, fosse opera di veleni fabbricati in Milano II. Che si possano fabbricar veleni,
che dopo essere stati all'aria aperta, al solo contatto diano la morte. III. Che se tai veleni si dessero, possa
un uomo impunemente maneggiarli. IV. Che si possa nel cuore umano
formare il desiderio di uccidere gli uomini così a caso. V. Che un uomo, quando fosse
colpevole di tal chimera, resterebbe spensierato dopo la vociferazione di due
giorni, e si lascerebbe far prigione. VI. Che il compositore di tal supposto
veleno, in vece di sporcarne da sé le muraglie, cercasse superfluamente de'
complici. VII. Che per trascegliere un complice di
tale abbominazione, gettasse l'occhio sopra un uomo appena conosciuto. VIII. Che questa confidenza si facesse alla
presenza di quattro testimonj, e il Piazza ne assumesse l'incarico senza
conoscerli, e colla vaga speranza di ottenere un regalo promessogli da un
povero barbiere! Tutte
queste otto proposizioni si pongano da una parte della bilancia. Dall’altra
parte si ponga un timore vivissimo dello strazio e de' spasmi sofferti, che
costringe un innocente a mentire, indi la ragione pesi e decida qual delle
due parti contiene più inverosimiglianza. Anche nella Francia in que' tempi
fu bruciata 1a marescialla d'Ancre, come strega, per sentenza del parlamento
di Parigi: tutta l'Europa era assai più nelle tenebre, di quello che ora vi
sia. È da osservare che anche in quest'orribile disordine vi si immischiò il
sortilegio, la fattucchieria; e l'infelice Piazza, per trovare la scusa
perché non avesse fatto questo racconto, o come diceva allora il giudice,
“detta la verità”, in prima rispose di attribuirlo a un'acqua che gli diede
da bere il barbiere, la qual'acqua perché poi non operasse nel terzo esame,
siccome aveva fatto ne' due primi, nessuno lo ricercò. Su
questi fondamenti si passò a far prigione il barbiere Gian-Giacomo Mora; e
quello che pure meritava osservazione fu, che lo colsero in sua casa fra la
moglie e i figli (in quella casa poi che venne distrutta per piantarvi la colonna
infame). Dal primo esame del Mora risulta che eragli stata nota la
vociferazione dell'unto fatto nel quartiere il giorno di venerdì 21 giugno;
che parimenti eragli nota la prigionia del commissario Piazza, seguita il
giorno 22 che fu sabato: e al mercoledì, giorno 26, si sarebbe lasciato
cogliere in sua casa se fosse stato reo? Tutto ciò che avvenne all'atto
dell'arresto conferma l'innocenza, non meno che la sorpresa di
quest’infelice. Egli aveva preparato pel commissario un unguento che
fabbricava per preservarsi dal mal contagioso, ugnendosi le tempia e le
ascelle; unguento, di cui descrisse poi la ricetta, che in que' tempi si
conosceva sotto il nome di “unguento dell'impiccato”. Il commissario diede
l'ordine al barbiere di prepararglielo, e fu fatto prigione prima che glielo
consegnasse. Credette il Mora che la cattura fosse per aver egli fabbricato
l'unguento che era di pertinenza degli speziali. Si lagnava di esser legato
per un simile motivo: “Se per sorte”, (dice egli mentre è arrestato in casa,
prima di condurlo prigione) “sono venuti in casa, perché io abbia fatto
quell'elettuario e non l'abbia potuto fare, non so che farci, l'ho fatto a
fine di bene e per salute de' poveri”; poi allo sbirro diceva: “Non stringete
la legatura alla mano, perché non ho fallato”; indi sospirando e battendo un
piede, esclamò: “Sia lodato Iddio!”. Nella
minutissirna visita fatta alla casa in presenza del Mora egli rese conto de'
barattoli d'unguenti, d'elettuarj e d'altre polveri e pillole che gli si
ritrovarono in bottega. Poi nel cortile della sua piccola casetta vi si
osservò “un fornello con dentro murata una caldaja di rame, nella quale si è
trovato dentro dell'acqua torbida, in fondo della quale si è trovato una
materia viscosa, gialla e bianca, la quale gettata al muro, fattane la prova,
si attaccava” Chi mai crederebbe che un potentissimo veleno, che al toccarlo
conduce alla morte, si tenesse in un aperto cortile, in una caldaja visibile
a tutti, in una casa dove v'erano più uomini, perché i Mora aveva figlj e
moglie, come consta anche dal processo? Le tenere fanciulle e la figlia per
la quale risulta che aveva fatto un unguento per i vermi, potevano elleno
essere partecipi del secreto? Potevasi lasciare in libertà di ragazzi un
veleno che uccide col tatto, riponendolo in una caldaja fissata nel muro del
cortile? Dopo che era tanto solenne il processo da sei giorni, era poi egli
possibile che il fabbricatore e distributore dell'unto conservasse
placidamente quel corpo di delitto alla vista, riposto nel cortile? Nessuno
di tai pensieri venne in capo al giudice. Interrogato il Mora cosa contenesse
quella caldaja, rispose nell'atto della visita: “L'è smoglio”, cioè ranno.
Nuovamente poi interrogato nel primo esame, rispose: “Signore, io non so
niente, l'hanno fatto far le donne: che ne dimandino conto da loro che lo
diranno; e sapeva tanto io che quel smoglio vi fosse, quanto che mi credessi
d'esser oggi condotto prigione: e quello è mestiero che fanno le donne, del
quale io non mi impedisco”. Su di questo proposito interrogata la moglie
dello sventurato Mora per nome Chiara Brivia, risponde d'aver fatto il bucato
quindici giorni prima, e d'aver lasciato del ranno “nella caldara, quale è là
nel cortino”. Questo
ranno doveva essere il corpo del delitto. Si esaminarono alcune lavandaje.
Margarita Arpizzanelli prima di visitare il ranno propala la sua teoria dicendo
al giudice: “Sa V. S. che con il smoglio guasto si fanno degli eccellenti
veleni che si posson fare?”. Si vede che il fanatismo era al colmo, e che le
persone che si esaminavano, a costo d'inventare nuove e sconosciute
proprietà, volevano sacrificare una vittima, e credevano di servir Dio e la
patria inventando un delitto. Si visita il ranno da questa Arpizzanelli
lavandaja, e questa giudica: “Questo smoglio non è puro, ma vi è dentro delle
furfanterie, perché il smoglio puro non ha tanto fondo, né di questo colore,
perché lo fa bianco, bianco, e non è tacchente come questo, il quale ha
brutto colore, ed è tacchente, e sta a fondo, e pare cosa grassa; ma quello
del vero smoglio, in movendosi il vaso in che si trova, si move tutto il
detto fondo”. Presso poco diè lo stesso giudizio l'altra lavandaja Giacomina
Endrioni, che disse: “Mi pare che vi sia qualche alterazione, ed il smoglio
si vede che quanto più se gli ruga dentro diventa più negro e più infame. Con
lo smoglio marzo, cattivo, si fanno di gran porcherie e tossichi”. Non credo
che verun chimico saprebbe fare un veleno coll'acqua del bucato. In una
bottega poi di un barbiere, dove si saranno lavati de' lini sporchi e dalle
piaghe e da' cerotti, qual cosa più naturale che il trovarvi un sedimento viscido,
grasso, giallo dopo varj giorni d'estate? Né
fu meno funesto il giudizio de' fisici. Il fisico collegiato Achille Carcano
concluse con quella opinione: “Io non ho osservato troppo bene che cosa facci
lo smoglio, ma dico bene che per rispetto alla ontuosità, che si vede in
quest'acqua può essere causata da qualche panno ontuoso lavato in essa, come
sarebbe mantili, tovaglie e cose simili; ma perché in fondo di quell'acqua vi
ho vista ed osservata la qualità della residenza che vi è, e la quantità in
rispetto alla poca acqua, dico e concludo non potere in alcun modo a mio
giudizio essere smoglio”. Le due lavandaje lo giudicano smoglio “con delle
furfanterie” e con qualche “alterazione”; il medico dice che in alcun modo
“non è smoglio”, e lo asserisce perché a proporzione del sedimento vi è poca
acqua, quasi che dopo quindici giorni che stava a cielo scoperto nel mese di
giugno non potesse l'acqua essere svaporata per la maggior parte! Fa ribrezzo
il vedere con quanta ignoranza e furore si procedesse e dagli esaminatori e
dagli esaminati, e quanto offuscato fosse ogni barlume di umanità e di
ragione in quelle feroci circostanze. Due altri, cioè il fisico Giambattista
Vertua e Vittore Bescapé decisero presso poco come il fisico Carcano, e
conclusero di non saper conoscere che composto fosse quello della caldaja. Su
questo giudizio e sulla deposizione del commissario Piazza, che anche al
confronto col barbiere Mora sostenne l'accusa datagli, esclamando sempre il
Mora e dicendo: “Ah Dio misericordia! non si troverà mai questo”, andò
progredendo il processo. Terminato
il confronto si pose al secondo esame il Mora. Il Piazza aveva detto di
essere stato a casa del Mora, aveva citati Baldassare Litta e Stefano Buzzi
come testimonj del fatto. Esaminato il Litta il giorno 29 giugno, “se mai ha
visto il Piazza in casa o bottega del Mora”, rispose: “Signor no”. Esaminato
il Buzzi nel giorno istesso, “se sa che tra il Piazza e il barbiere passi
alcuna amicizia”, rispose: “Può essere che siano amici e che si salutassero,
ma questo non lo saprei mai dire a V. S.”. Interrogato, “se sa che il detto
Piazza sia mai stato in casa o bottega del detto barbiere”, rispose: “Non lo
saprei mai dire a V. S.”. Tali funno le deposizioni de' due testimonj, che il
Piazza citò per provare di essere stato a casa del barbiere. Il barbiere
negava che fosse mai stato il Piazza a casa di lui. Su questa negativa il
barbiere fu posto a crudelissima tortura col canape. Ciò si eseguì il giorno
30 di giugno. Il povero padre di famiglia Gian-Giacomo Mora, uomo corpulento
e pingue, a quanto viene descritto nel processo, prima di prestare il
giuramento si pose ginocchioni avanti il Crocifisso ed orò, indi baciata la
terra si alzò e giurò. Quando cominciarono i tormenti esclamò: “Gesù Maria
sia sempre in mia compagnia, son morto”. Il tormento cresceva, ed egli
esclamava, protestava la sua innocenza e diceva: “Vedete quello che volete
che dica che lo dirò”. Fa troppo senso all'umanità il seguitare questa scena,
che non pare rappresentata da uomini, ma da que' spiriti malefici che
c'insegnano essere occupati nel tormentare gli uomini. Per sottrarsi
l'infelice Mora promise che avrebbe detta la verità se cessavano i tormenti;
si sospesero. Calato al suolo disse: “La verità è che il commissario non ha
pratica alcuna meco”. Il giudice gli rispose che “questa non è la verità che
ha promesso di dire, perciò si risolva a dirla, altrimenti si ritornerà a far
levare e stringere”. Replicò lo sgraziato Mora: “Faccia V. S. quello che
vuole”. Si rinnovarono gli strazj, e il Mora urlava “Vergine santissima sia
quella che m'ajuta”. Sempre se gli cercava la verità dal giudice, egli
ripeteva: “Veda quello che vuole che dica, lo dirò”. L’eccesso dello spasimo
attuale era quello che l'occupava, e finalmente disse il Mora: “Gli ho dato
un vasetto pieno di brutto, cioè di sterco, acciò imbrattasse le muraglie, al
commissario”. Con tal espediente fu cessato il tormento, quindi per non
essere nuovamente ridotto alle angoscie viene a dire: “Era sterco umano,
smojazzo, perché me lo dimandò lui, cioè il commissario per imbrattar le
case, e di quella materia che esce dalla bocca dei morti”. Vedesi la
produzione forzata dalla mente di un miserabile oppresso dallo spasimo. Lo
sterco e il ranno non bastavano a dar la morte: egli inventa la saliva degli
appestati; poi proseguendo le interrogazioni e le risposte, dice il Mora che
ebbe dal commissario Piazza per il peso di una libbra di quella materia della
bocca degli appestati e la versò nella caldaja, e che gliela diede per fare
quella composizione onde si ammalassero molte pelsone, e avrebbe lavorato il
commissario, e col suo elettuario avrebbe guadagnato molto il barbiere.
Conclude col dire che questo concerto fu fatto, “trattandosi così tra noi ne
discorressimo”. Il
Piazza che aveva levata l'impunità non diceva niente di tutto ciò. Anzi
diceva di essere stato invitato dal Mora. Come mai raccogliere
clandestinamente tanta bava per una libbra? Come raccoglierla senza contrarre
la peste? Come riporla nella caldaja, onde la moglie, i teneri incauti figli
si appestassero? Come conservarla dopo le solenni procedure, e lasciarsi un
simil corpo di delitto? Come sperar guadagno vendendo l'elettuario: mancavano
forse ammalati in quel tempo? Non si può concepire un romanzo più tristo e
più assurdo. Pure tutto si credeva, purché fosse atroce e conforme alle
funeste passioni de que' tempi infelici. Il giorno vegnente, cioè il primo di
luglio fu chiamato il Mora all'esame per intendere “se ha cosa alcuna da
aggiungere all'esame e confessione sua che fece jeri. dopo che fu omesso da
tormentare”, ed ei rispose: “Signor no, che non ho cosa da aggiungervi, ed ho
più presto cosa da sminuire”. Che cosa poi avesse da sminuire lo rispose
all'interrogazione: “Quell'unguento che ho detto non ne ho fatto mica, e quello
che ho detto, l'ho detto per i tormenti” A tale proposizione fugli
minacciato, che se si ritrattava dalla verità detta il giorno avanti. “per
averla si verrà contro di lui a tormenti”: a ciò rispose il Mora: “Replico
che quello che dissi jeri non è vero niente, e lo dissi per i tormenti”. Postea
dixit: “V. S. mi lasci un poco dire un' Ave Maria, e poi farò quello che
il Signore mi inspirerà”: postea genibus flexis se posuit ante imaginem
Crucifixi depictam, et oravit per spatium unius miserere deinde surrexit, mox
rediit ad examen. Et iterato juramento, interrogatus [indi si pose in
ginocchio dinanzi all'immagine de Crocefisso e disse un miserere: si alzò e
ritornò all'esame. Ripetuto il giuramento, alla domanda]: “che si risolva
ormai a dire se l'esame che fece jeri, e il contenuto di esso è vero”, respondit
“In coscienza mia, non è vero niente”. Tunc jussum fuit duci al locum
tormentorum [Allora si comandò che fosse condotto al luogo del
supplizio], con quel che segue, ed ivi poi legato, mentre si ricominciava la
crudele carnificina, esclamò che lo lasciassero, che non gli dessero più
“tormenti, che la verità che ho deposto la voglio mantenere”; allora lo
slegarono e il ricondussero alla stanza dell'esame, dove nuovamente
interpellato, “se è vero come sopra ha detto, che l'esame che fece jeri sia
la verità nel modo che in esso si contiene”, rispose: “Non è vero niente”. Tunc
jussum fuit iterum duci ad locum tormentorum etc.: e così con questa
alternativa dovette alfine soccombere, e preferire ogni altra cosa alla
disperata istanza de’ tormenti. Ratificò il passato esame e si trovò nel caso
nuovamente di proseguire il funesto romanzo. Ecco quanto inverosimile sia il
racconto. Dice egli adunque che quel Piazza che appena egli conosceva di
figura, e col quale anche dal processo risulta che non aveva famigliarità,
quel Piazza adunque “la prima volta che trattassimo insieme mi diede il vaso
di quella materia, e mi disse così: accomodatemi un vaso con questa materia,
con la quale ungendo i catenacci e le muraglie si ammalerà della gente assai,
e tutti due guadagneremo”. Che verosimiglianza! Se aveva la materia il Piazza
in un vaso, perché consegnarla al barbiere acciocché “gli accomodasse un
vaso?”. Mancavano forse ammalati in quel tempo, mentre morivano 800 cittadini
al giorno? Che bisogno di far ammalare la gente? Perché non ungere
immediatamente? Non vi è il senso comune. Come poi componeva il barbiere
questo mortale unguento? Eccolo. “Si pigliava”, prosegue l'infelice Mora, “di
tre cose, tanto per una; cioè un terzo della materia che mi dava il
commissario, dello sterco umano un altro terzo, e del fondo dello smoglio un
altro terzo; e mischiavo ogni cosa ben bene, né vi entrava altro ingrediente,
né bollitura”. Lo sterco e l'acqua del bucato non potevano che indebolire
l'attività della bava degli appestati. Tessuto
così questo secondo romanzo contradittorio del primo, si richiama all'esame
il Piazza, che aveva l'impunità a condizione che avrebbe detta la verità
intiera, e interrogato se sapesse di qual materia fosse composto o in qual
modo fabbricato l'unguento datogli dal barbiere, rispose di non saperlo.
Replicò il giudice, se almeno sapesse che alcuno avesse data al barbiere
materia per fabbricare quell'unguento, e rispose il Piazza: “Signor no, che
non lo so”. Se il Piazza avesse data la bava degli appestati, poiché aveva
l'impunità dicendo esattamente il tutto e doveva aspettarsi il supplizio non
dicendolo esattamente, come mai avrebbe mutilata la circostanza principale
nel tempo in cui il complice supposto, cioè il barbiere Mora, co' tormenti
l'avrebbe scoperta? Se dunque non si verifica che il Piazza abbia
somministrato la bava, si vede inventata la forzata istoria del Mora. Questo
ragionamento poteva pur farlo il giudice; ma sgraziatamente la ragione non
ebbe parte veruna in tutta quella sciagura. Il giudice allora disse al
Piazza, che dal processo risultava che egli avesse somministrato la bava de'
morti al barbiere, e su di ciò nuovamente il giudice l'interrogò così: “Che
dica per qual causa nel suo esame e confessione, qual fece per godere
l'impunità, non depose questa particolarità, sostanza del delitto, siccome
era tenuto di fare?”. E a ciò rispose il Piazza: “Della sporchizia cavata
dalla bocca dei morti appestati io non l'ho avuta, né portata al barbiere, e
del resto che ho confessato, adesso che sono stato interrogato, non me ne
sono ricordato, e per questo non l'ho detto”. Allora gli venne intimato, che
per non aver egli mantenuta la fede di palesare la verità, e per aver
“diminuita la sua confessione” non poteva più godere della impunità, a norma
ancora della protesta fattagliene da principio. A questa minaccia il Piazza
si rivolse subito ad accordare di aver somministrato la bava e di averne data
al barbiere, non già una libbra, come disse il povero Gian-Giacomo Mora, ma
“così un piattellino in un piatto di terra”. Obbligato poi
dall'interrogazione a dire come seguisse tutto ciò, eccone la risposta, di
cui l'assurdità abbastanza da sé sola si manifesta. Così dunque rispose lo
sgraziato Piazza: “Io mi mossi instato e ricercato dal detto barbiere, il
quale mi ricercò a così fare con promessa di darmi una quantità di danari,
sebbene non la specificò, dicendomi che aveva una persona grande che gli
aveva promesso una gran quantità di danaro per far tal cosa, e sebbene fosse
ricercato da me a dirmi chi era questa persona grande, non me lo volle dire,
ma solamente mi disse di attendere a lavorare ed untare le muraglie e porte,
che mi avrebbe dato una quantità di danari”. Conviene ricordarsi che il
barbiere era un povero uomo, e basta vedere lo spazio che occupava la sua
povera casetta. Egli poi era un padre di famiglia con moglie e figli, e non
un ozioso e vagabondo, del quale si potesse far scelta per un simile orrore.
Sin qui a forza di tormenti e di minacce si è trovato modo di far coincidere
i due romanzi, e costringere il contraddicente a confermare la favola di chi
aveva parlato prima. Vengono ora in campo da questa risposta due cose affatto
nuove. Una si è che il barbiere promettesse “una quantità di danari”; l'altra
si è che in questo affare vi entrasse “una persona grande”: né l'una né
l'altra era stata detta dal Mora. Si pose dunque nuovamente all'esame il
Mora. Interrogato se egli avesse promesso una quantità di danari al Piazza,
rispose il Mora nel quinto esame del giorno 2 luglio 1630: “Signor no; e dove
vuole V. S. che piglimi questa quantità di danari?”. Allora gli venne detto
dal giudice quanto risultava in processo e sui danari e sulla persona grande,
e si redarguì perché dicesse la verità. Rispose il Mora queste parole: “V. S.
non vuol già se non la verità, e la verità io l'ho già detta quando sono
stato tormentato, e ho detto anche d'avvantaggio”; dal quale fine si vede
come l'infelice avrebbe pure ritrattata tutta la funesta favola pronunziata,
se non avesse temuto nuovi tormenti: “e ho detto anche d'avvantaggio”! Questo
“anche” più chiaramente lo disse allorché ai due di luglio furongli dati i
reati, e stabilito il breve termine di due soli giorni per fare le sue
difese; sul qual proposito si legge in processo che il protettore de'
carcerati disse al notajo così: “Per obbedienza sono stato dal signor
presidente, e gli ho parlato; sono anco stato dal Mora, il quale mi ha detto
liberamente che non ha fallato, e che quello l'ha detto per i tormenti; e perché
io gli ho detto liberamente, che non voleva, né poteva sostenere questo
carico di difenderlo, mi ha detto che almeno il sig. presidente sia servito
di provvederlo di un difensore, e che non voglia permettere che abbia da
morire indifeso”: da che si vedono più cose, cioè che il Mora teneva per
certo di dover morire, e tutta la ferocia del fanatismo che lo circondava
doveva averlo bastantemente persuaso; che, sebbene tenesse per certa la
morte, liberamente diceva di avere mentito per i tormenti; e che finalmente
il furore era giunto al segno, che si credeva un'azione cattiva e disonorante
il difendere questa disgraziata vittima, posto che il protettore diceva di
non volere, né potere assumersene l'incarico. Il termine poi per le difese
venne prorogato. V. Delle opinioni e metodi della procedura criminale in quella occasione Acciocché
poi si possa concepire un'idea precisa e originale del modo di pensare in
quel tempo, credo opportuno di trascrivere un esame, che sta nel corpo di
quest'orribile processo; veramente serve egli di episodio alla tragedia del
Piazza e del Mora; ma siccome originalmente vi si vedono la feroce pazzia, la
Superstizione, il delirio, io lo riferirò esattamente, ponendo in margine
distintamente le osservazioni che mi si presentano. Ecco l'esame: Die
suprascripto, octavo Julii. Vocatus
ego notarius Gallaratus, dum discedere vellem a loco suprascripto appellato la Cassinazza, juvenis quidam mihi formalia
dixit [Il giorno suindicato, 8 luglio: Mentre io, notaio Ga1larati, stavo
allontanandomi dal luogo soprascritto, chiamato la Cassinazza, un giovane mi
rivolse queste testuali parole] “Io voglio che V. S. mi accetti nella sua
squadra, ed io dirò quello che so”. Tunc
ei delato juramento etc. [Allora,
fattogli prestare giuramento]. Interrogatus
de ejus nomine, cognomine, patria
[Interrogato del suo nome, cognome, luogo di nascita] Respondit: “lo mi chiamo Giacinto Maganza, e sono figliuolo
di un frate, che si chiama frate Rocco, che di presente si trova in S.
Giovanni la Conca, e sono Milanese, e molto conosciuto in porta Ticinese”. Int.: “Che cosa è quello che vuol dire di quello che
sa”. Resp.
titubando: “Io dirò la verità, è un
cameriere, che dà quattro dobble al giorno”. - Deinde obmutuit stringendo
dentes [Indi tacque, stringendo i denti]. Et
institus denuo [Sollecitato
nuovamente] a dir l'animo suo, e finire quanto ha cominciato a dire. Resp. “È il Baruello padrone dell'osteria di S. Paolo in
compito”., mox dixit [subito rispose], “è anche parente dell'oste del
Gambaro”. Int.: “Che dica come si chiama detto Baruello”. Resp.: “Si chiama Gian-Stefano”. Int.: “Che dica cosa ha fatto detto Baruello”. Resp.: “Ha confessato già, che si è trovato delle biscie
e de' veleni nella sua canepa”. Int.: “Dica come sa lui esaminato queste cose”. Resp.: “Il suo cognato mi ha cercato a voler andar a
cercare delle biscie con lui”. Int.: “Che dica precisamente che cosa gli disse detto
cognato, e dove fu”. Resp.: “Me lo ha detto con occasione che in porta
Ticinese mi addimandano "il Romano", così per sopra nome, e mi
disse andiamo fuori di porta Ticinese, lì dietro alla Rosa d'oro ad un
giardino che ha fatto fare lui, a cercare delle biscie, dei zatti e dei
ghezzi ed altri animali, quali li fanno poi mangiare una creatura morta, e
come detti animali hanno mangiato quella creatura, hanno le olle sotto terra
e fanno gli unguenti e li danno poi a quelli che ungono le porte; perché
quell'unguento tira più che non fa la calamita”. Int.: “Dica se lui esaminato ha visto tal unto”. Resp.: “Signor si, che l'ho visto”. Int.: “Dica dove ed a chi ha visto l'unto”. Tunc
obmutuit, labia et dentes stringendo
[Allora tacque, stringendo le labbra e i denti], et institus [e
sollecitato] a rispondere allegramente alla interrogazione fattagli: Resp.: “Io l'ho visto nella osteria della Rosa d'oro”. Int.: “Dica chi aveva tal unto, e in che vaso era”. Resp.: “L'aveva il Baruello”. Int.: “Dica quando fu che aveva tal unto il Baruello”. Resp.: “Saranno quindici giorni, ed era un mercoledì, se
non fallo, e l'aveva il detto Baruello in un'olla grande, e l'aveva
sotterrato in mezzo dell'orto nella detta osteria della Rosa d'oro con sopra
dell'erba”. Int.: “Dica se lui esaminato ha mai dispensato di
quest'unto”. | Resp.: “Se io ne ho dispensato due scattolini mi possa
essere tagliato il collo”. Int.: “Dica dove ha dispensato tal unto”. Resp.: “lo l'ho dispensato sopra il Monzasco”. Int.: “Dica in che luogo preciso del Monzasco ha
dispensato tal unto”. Resp.: “lo l'ho dispensato sopra le sbarre delle chiese,
perché questi villani subito che hanno sentito messa si buttano giù e si
appoggiano alle sbarre, e per questo le ungeva”. Int.: “Dica precisamente dove sono le sbarre da lui
esaminato unte, come ha detto”. Resp.: “lo ho unto in Barlassina, a Meda ed a Birago, né
mi ricordo esser stato in altro luogo”. Int.: “Dica chi ha dato a lui esaminato l'unto”. Resp.: “Me l'ha dato il detto Baruello, e Gerolamo
Foresaro in un palpero [papiro, cioè carta] sopra la ripa del fosso di porta
Ticinese vicino la casa del detto Foresaro, qual sta vicino al ponte de'
Fabbri”. Int.: “Dica che cosa detti Foresè e Baruello dissero a
lui esaminato quando gli diedero tal unto”. Resp.: “Quando mi diedero tal unto fu quando io fui se
non venuto dal Piemonte, e mi trovarono dietro il fosso di porta Ticinese; il
Baruello mi disse: o Romano, che fai? Andiamo a bevere il vin bianco, mi
rallegro che ti vedo con buona ciera: e così andai all'osteria (mox dixit
[subito si corresse]), all'offelleria delle Sei-dita in porta Ticinese, e
pagò il vin bianco e un non so che biscottini, e poi mi disse, vien qua
Romano, io voglio che facciamo una burla a uno, e perciò piglia quest'unto,
quale mi diede in un palpero, e va all'osteria del Gambaro, e va là di sopra
dove è una camerata di gentiluomini; e se dicessero cosa tu vuoi, di' niente,
ma che sei andato là per servirli, e poi che gli ungessi con quell'unto e
cosi io andai, e gli unsi nella detta osteria del Gambaro, qual erano là, io
era dissopra della lobbia a mano sinistra; e m'introdussi 1à a dargli da
bevere mostrando di frizzare un poco, cioè per mangiare qualche boccone; e
così gli unsi le spalle con quell'unguento, e con mettergli il ferrajuolo gli
unsi anco il collaro e il collo con le mani mie, dove credo sono poi morti di
tal unto”. Int.: “Dica se sa precisamente che alcuno di quelli che
furono unti da lui esaminato, come sopra, siano poi morti, o no”. Resp.: “Credo che saranno morti senz'altro, perché
morono solamente a toccargli i panni con detto unto: non so poi a toccargli
le carni come ho fatto io”. Int.: “Dica come ha fatto lui esaminato a non morire,
toccando questo unto tanto potente, come dice”. Resp.: “El sta alle volte alla buona complessione delle
persone”. Quo
facto cum hora esset tarda fuit dimissum examen [Ciò fatto, essendo tardi, fu sospeso
l'inteuogatorio]. Da
questo esame solo ne ricaverà chi legge l'idea precisa della maniera di
pensare e procedere in quei disgraziatissirni tempi. Ho creduto bene di
riferire fedelmente un esame, acciocché si vedano le cose nella sorgente, e
non resti dubbio che mai l'amore del paradosso, il piacere di spargere nuova
dottrina, o la vanità di atterrare una opinione comune, mi facciano aggravare
le cose oltre l'esatto limite della verità. Il metodo, col quale si
procedette allora, fu questo. Si suppose di certo che l'uomo in carcere fosse
reo. Si torturò sintanto che fu forzato a dire di essere reo. Si forzò a
comporre un romanzo e nominare altri rei; questi si catturarono, e sulla
deposizione del primo si posero alla tortura. Sostenevano l'innocenza loro;
ma si leggeva ad essi quanto risultava dal precedente esame dell'accusatore,
e si persisteva a tormentarli sinché convenissero d'accordo. Altra
prova di pazzia di que' tempi è l'esame lunghissimo fatto il 12 settembre a
Gian-Stefano Baruello, il quale ebbe la sentenza di morte dal Senato il
giorno 27 agosto (morte, che dopo le tenaglie, il taglio della mano, la
rottura delle ossa e l'esposizione vivo sulla ruota per sei ore, terminava
coll'essere finalmente scannato), e fu sospesa proponendogli l'impunità se
avesse palesato complici e esposto il fatto preciso. Questi dunque tessé una
storia lunghissima e sommamente inverosimile, per cui il figlio del
castellano di Milano compariva autore di quest'atrocità, affine di vendicarsi
di un insulto stato fatto in porta Ticinese, e si voleva che il signor D.
Giovanni Padilla figlio del castellano avesse lega col Foresè, Mora, Piazza,
Carlo Scrimitore, Michele Tamburino, Giambattista Bonetti, Trentino, Fontana
ecc. e varj simili uomini della feccia del popolo. Redarguito poi, come
avendo egli il mandato per la uccisione di porta Ticinese, ne facesse
spargere in altre porte, e convinto d'inverosimiglianza somma nel suo
racconto, ecco cosa si vede che rispondesse esso Gian-Stefano Baruello nel
suo esame 12 settembre 1630. Et
cum haec dixisset, et ei replicaretur haec non esse verisimilio, et propterea
hortaretur ad dicendam veritatem
[Avendo ciò detto ed essendogli stato replicato che le cose da lui dette non
erano verosimili, fu esortato a dire la verità] Resp.: “Uh! uh! uh! Se non la posso dire”, extendens collum et toto
corpore contremiscens, et dicens [tendendo il collo e scuotendo tutto il
corpo]: “V. S. m'ajuti, V. S. m'ajuti”. Ei
dicto [Essendogli stato detto]:
“Che se io sapessi quello vuol dire potrei anco ajutarlo, che però accenni, che
se s'intenderà in che cosa voglia essere ajutato, si ajuterà potendo”. Tunc
denuo incepit se torquere, labia aperire, dentes perstringendo, tandem dixit [Allora nuovamente cominciò a torcersi, ad aprire
le labbra, a stringere i denti e finalmente disse]: “V. S. mi ajuti; signore,
ah Dio mio! ah Dio mio!”. Tunc
ei dicto: “Avete forse qualche
patto col Diavolo? Non vi dubitate e rinunziate ai patti, e consegnate
l'anima vostra a Dio che vi ajuterà”. Tunc
genuflexus dixit [Allora
inginocchiatosi disse]: “Dite come devo dire, signore”. Et
ei dicto: “Che debba dire: io
rinunzio ad ogni patto che io abbia fatto col Diavolo, e consegno l'anima mia
nelle mani di Dio e della B. Vergine, col pregarli a volermi liberare dallo
stato nel quale mi trovo, ed accettarmi per sua creatura”. Quae
cum dixisset, et devote et satis ex corde, ut videri potuit, surrexit, et cum
loqui vellet, denuo prorupit in notas confusas porrigendo collum, dentibus
stringendo volens loqui, nec valens, et tandem dixit [Dette queste cose, devotamente e abbastanza
sinceramente, come si poté vedere, si alzò e, volendo parlare, emise dei
suoni confusi, sporgendo il collo, stringendo i denti, volendo parlare e non
riuscendovi, tuttavia disse]: “Quel prete Francese”. Et
cum haec dixisset statim se projecit in terram, et curavit se abscondere in
angulo secus bancum, dicens [E,
pronunziate queste parole, si gettò immediatamente a terra, tentando di
nascondersi in un angolo sotto il banco, e disse]: “Ah Dio mi! ah Dio mi!
ajutatemi, non mi abbandonate”. Et
ei dicto: “Di che temeva?”. Resp.: “È 1à, è là quel prete Francese con la spada in
mano, che mi minaccia, vedetelo là, vedetelo là sopra quella finestra”. Et
ei dicto: “Che facesse buon animo,
che non vi era alcuno, e che si segnasse e si raccomandasse a Dio, e che di
nuovo rinunziasse ai patti che aveva col Diavolo, e si donasse a Dio ed alla
Beata Vergine”. Cum
haec verba dixissem, dixit iterum [Avendo
io detto queste parole, esclamò nuovamente]: “A signore, ei viene, ei viene
colla spada nuda in mano”: quae omnia quinquies replicavit, et actus fecit
quos facere solent obsessi a Daemone, et spumam ex ore sanguinemque e naribus
emittebat, semper fremendo et clamando [e ripeté queste parole cinque
volte, e fece quegli atti che sono soliti fare gli ossessi dal demonio,
emettendo bava dalla bocca e sangue dal naso, sempre tremando ed esclamando]:
“Non mi abbandonate, ajuto, ajuto, non mi abbandonate”. Tunc
jussum fuit afferri aquam benedictam, et vocari aliquem sacerdotem, quae cum
allata fuisset, ea fuit aspersus: cum postea supervenisset sacerdos, eique
dicta fuissent omnia suprascripta, sacerdos, benedicto loco et in specie
dicta fenestra ubi dicebat dictus Baruellus extare illum praesbiterum cum
ense nudo prae rnanibus et minantem, variis exorcismis tamen usus fuit, et
auctoritate sibi uti sacerdoti a Deo tributa, omnia pacta cum Daemone innita,
irrita et nulla declarasset, immo ea irritasseti et annullasset, interim vero
dictus Baruellus stridens dixit
[Allora venne ordinato di portare dell'acqua benedetta e di chiamare qualche
sacerdote; come arrivò l'acqua, ne fu asperso. Sopraggiunse un sacerdote al
quale vennero riferite le cose suddette e il sacerdote, dopo aver benedetto
il luogo e in special modo la finestra dove il Baruello diceva essere il
prete con la spada in mano e minaccioso, fece vari esorcismi e, con
l’autorità concessagli da Dio quale sacerdote, dichiarò annullato ogni patto
col Diavolo, anzi lo annullò e lo rese vano; frattanto il detto Baruello
urlando disse]: “Scongiurate quello Gola Gibla”, contorquendo corpus more
obsessorum, et tandem finitis exorcismis sacerdos recessit [contorcendo
il corpo al modo degli ossessi e infine, terminati gli esorcismi, il
sacerdote se ne andò]. Excitatus
pluries ad dicendum, tamen in haec verba prorupit [Più volte invitato a parlare, disse infine con
foga]: “Signore, quel prete era un Francese, il quale mi prese per una mano,
e levando una bacchettina nera, lunga circa un palmo che teneva sotto la
veste, con essa fece un circolo, e poi mise mano a un libro lungo in foglio,
come di carta piccola da scrivere, ma era grossa tre dita, e l'aperse, ed io
vidi sopra i fogli dei circoli e lettere attorno, e mi disse che era la
Clavicola di Salomone, e disse che dovessi dire, come disse queste parole:
"Gola Gibla"; e poi disse altre parole ebraiche, aggiungendo che
non dovessi uscir fuori del cerchio perché mi sarebbe succeduto male, e in
quel punto comparve nello stesso circolo uno vestito da Pantalone, allora
detto prete, ecc.”. Cade la penna dalle mani, e non si può continuare a
trascrivere un tessuto simile di pazzie troppo serie e funeste in que' tempi.
Il risultato di un lunghissimo cicalìo di questo disgraziato, che sperava la
vita e l'impunità con un romanzo di accuse, fu di far credere autore il
cavaliere D. Giovanni di Padilla delle unzioni venefiche, sparse coll'opera
di certi Fontana, Mora, Piazza, Vaccarìa, Licchiò, Saracco, Fusaro, un
barbirolo di porta Comasina, certo Pedrino daziaro, Magno Bonetti, Baruello,
Girolamo Foresaro, Trentino, Vedano e simili infelici della più bassa plebe. Quanto
poi alle vociferazioni pubbliche, alcune attribuivano queste unzioni ai
Tedeschi, altre ai Francesi che tentavano di distruggere l'Italia, altre agli
Eretici e particolarmente Ginevrini, altre al duca di Savoja, altre, non si
sa poi ben come, ad alcuni gentiluomini Milanesi, fatti prigionieri dal papa
e rnandati in Milano; altre finalmente al conte Carlo Rasini, a D. Carlo
Bossi, più che ad ogni altro si attribuirono al cavaliere di Padilla. Si
diceva che per ogni quartiere della città vi fossero due barbieri destinati a
fabbricare gli unti, e che più di cento cinquanta persone fossero adoperate a
spargere l'unzione. Che varj banchieri pagassero largamente questi emissarj,
e fra questi Giambattista Sanguinetti, Gerolamo Turcone e Benedetto Lucino, e
che questi sborsassero qualunque somma, senza ritirarne quitanza, a qualunque
uomo si presentasse loro in nome del cavaliere Padilla. Sopra simili
assurdità, sebbene esaminati minutamente i libri de' negozianti suddetti non
si trovasse veruna annotazione nemmeno equivoca, si passò a crudeli torture
contro di essi. Il cavaliere Padilla si trovò che nel tempo, in cui si diceva
che in Milano avesse formato e diretto questo attentato, egli era a Mortara e
altre terre del Piemonte, ove combatteva alla testa della sua compagnia in
difesa di questo stato. Merita di essere trascritta la risposta ch'ei fece in
processo quando fu costituito reo di queste unzioni. Così egli dice: “Io mi
maraviglio molto che il senato sia venuto a risoluzione così grande,
vedendosi e trovandosi che questa è una mera impostura e falsità fatta non
solo a me, ma alla giustizia istessa”. Ed aveva ben ragione di dirlo, perché
dalla narrativa istessa del reato appariva la grossolana impostura. “Come”,
proseguì esso cavaliere, “un uomo di mia qualità, che ho speso la vita in
servizio di S. M., in difesa di questo stato, nato da uomini che hanno fatto
lo stesso, avevo io da fare, né pensare cosa che a loro e a me portasse tanta
nota di infamia? E torno a dire che questo è falso, ed è la più grande
impostura che ad uomo sia mai stata fatta.” Questa risposta, detta nel calore
di un sentimento, è forse il solo tratto nobile che si legga in tutto
l'infelice volume che ho esaminato. Il delitto non parla certamente un tal linguaggio,
e il cavalier Padilla era sicuramente assai al dissopra del livello de' suoi
giudici e del suo tempo. La
serie del delitto contestato al cavaliere di Padilla Si ricava dalla
narrazione medesima del reato, e vi si scorge il sugo de’ romanzi forzatamente
creati colla tortura: io ne compilerò l'estratto semplicemente, giacché
troppo riuscirebbe di tedio l'intiera narrazione, e porrò in margine le
osservazioni opportune. Risultò adunque la diceria seguente: Circa
al principio del mese di maggio il cavaliere di Padilla vicino alla chiesa di
S. Lorenzo parlò al barbiere Giacomo Mora, ordinandogli che facesse un unto
da applicare ai muri e porte onde risultasse la morte delle persone,
assicurandolo che danari non ne sarebbero mancati, e non temesse, perché
“avrebbe trovato molti compagni”. Indi altra volta, pochi giorni dopo, gli
diede delle dobble perché ungesse, e vi era presente un gentiluomo, Crivelli;
e il trattato fu fatto da certo D. Pietro di Saragozza; indi il barbiere
allora fu avvisato che i banchieri Giulio Sanguinetti e Gerolamo Turcone
avevano ordine di somministrare tutto il danaro occorrente a chiunque andava
da essi in nome di D. Giovanni di Padilla. Carlo Vedano poi maestro di
scherma fu il mezzano per indurre Gian-Stefano Baruello a fare di queste
unzioni, e condusse il Baruello sulla piazza del castello, ove ritrovavansi
Pietro Francesco Fontana, Michele Tamburino, un prete e due altri vestiti
alla francese, ove dal cavaliere furongli dati dei danari, perché il Baruello
ungesse e facesse parimenti ungere le forbici delle donne da Gerolamo
Foresaro, e gli consegnò un vaso di vetro quadrato dicendogli: “Questo è un
vaso d'unguento di quello che si fabbrica in Milano, ed ho a centinaia de'
gentiluomini che mi fanno questi servizj, e questo vaso non è perfetto”;
quindi gli ordinò di prendere de' rospi, delle lucertole ecc., e farle
bollire nel vino bianco e mischiare tutto insieme. Poi temendo il Baruello di
proprio danno col toccarlo, gli fece vedere il cavaliere a toccarlo senza
timore. Poi viene il circolo fatto dal prete e il Pantalone, del quale ho già
data notizia. Indi si vuole che il cavaliere dicesse al Baruello di non
dubitare, che se la cosa andava a dovere, esso cavaliere sarebbe stato
“padrone dl Milano, e voi vi voglio fare dei primi”; soggiungendo di nuovo
“che se per sorte fosse pervenuto nelle mani della giustizia, non avrebbe in
alcun tempo confessato cosa alcuna”. Tale è la serie del fatto deposto contro
il figlio del castellano, la quale sebbene smentita da tutte le altre persone
esaminate (trattine i tre disgraziati Mora, Piazza e Baruello che alla
violenza della tortura sacrificarono ogni verità, servì d base a un
vergognosissimo reato. VI. Della insidiosa cavillazione che si usò nel processo verso di alcuni infelici Soffoco
violentemente la natura, e superato il ribrezzo che producono tante atrocità,
io trascriverò per intiero l'esame fatto al povero maestro di scherma Carlo
Vedano. La scena è crudelissima, la mia mano la strascrive a stento; ma se il
raccapriccio che io ne provo gioverà a risparmiare anche una sola vittima, se
una sola tortura di meno si darà in grazia dell'orrore che pongo sotto gli
occhi, sarà ben impiegato il doloroso sentimento che provo, e la speranza di
ottenerlo mi ricompensa. Ecco l'esame. 1630 die 18 septembris etc. Eductus
e carceribus Carolus Vedanus [18
settembre 1630, ecc. Tradotto dalle carceri Carlo Vedano]. Int.: “Che dica se si è risolto a dir meglio la verità
di quello ha sin qui fatto circa le cose che è stato interrogato, e che gli
sono state mantenute in faccia da Gio Stefano Baruello”. Resp.: “Illustrissimo signore, non so niente”. Ei
dicto: “Che dica la causa perché
interrogato se aveva mangiato in casa di Gerolamo cuoco, che fa l'osteria là
a S. Sisto di compagnia del Baruello, non contento di dire una volta di no,
rispose: "Signor no, signor no, signor no"”. Resp.: “Perché non è la verità”. Ei
dicto: “Che per negare una cosa
basta dire una volta di no, e che quel replicare signor no, signor no, signor
no, mostra il calore con che lo nega, e che per maggior causa lo neghi che
perché non sia vero”. Resp.: “Perché non vi sono stato”. Ei
dicto: “Che occasione aveva di
scaldarsi cosi?”. Resp.: “Perché non vi sono stato, illustrissimo signore”. Ei
denuo dicto: “Perché interrogato,
se aveva mai mangiato col detto Baruello all'osteria sopra la piazza del
castello, rispose: "Signor no, mai, mai, mai"” Risp. “Ma, signore, vi ho mangiato una volta, ma non
solo, ma in compagnia di Francesco barbiere figliuolo d'Alfonso, e quando ho
risposto: "Signor no, mai, mai, mai' mi sono inteso d'avervi mangiato
col Baruello solamente”. Ei
dicto: “Prima, che esso non era
interrogato se avesse mangiato là col Baruello solo o in compagnia d'altri,
ma semplicemente se aveva mangiato con lui alle dette osterie, e però se gli
dice che in questo si mostra bugiardo, poiché allora ha negato e adesso
confessa; di più se gli dice che si ricerca di saper da lui, perché causa con
tanta esagerazione negò di avervi mangiato; né gli bastò di dire di no, che
anco vi aggiunse quelle parole "mai, mai, mai"”. Resp.: “Ma, signore, perché io non vi ho mai mangiato,
altro che quella volta, ed intesi l'interrogazione di V. S. se aveva mangiato
con lui solo; e quanto al secondo, dico che mi sfogava così perché non vi ho
mai mangiato”. Ei
denuo dicto: “Perché, interrogato
se mai ha trattato col Baruello di far servizio al signor D. Giovanni,
rispose di no, ed essendogli replicato che ciò gli sarebbe stato mantenuto in
faccia, aveva risposto che questo non si sarebbe trovato mai, ed essendogli
di nuovo replicato che di già si era trovato, rispose con parole interrotte:
"Sarà, uh! uh! uh!"”. Resp.: “Perché non ho mai parlato con lui” Int.: “Chi è questo lui?”. Resp.: “È il figliuolo del signor castellano”. Ei
dicto: “Perché questa mattina, interrogato
se si è risoluto a dire la verità meglio di quel che fece jeri sera, ha
prorotto in queste parole: "Perché io ne sono innocente di quella cosa
che mi imputano", le quali parole, oltreché sono fuori di proposito, non
essendo mai stato interrogato sopra imputazione che gli sia stata data,
mostrano ancora che esso sappia d'essere imputato di qualche cosa; e pure
interrogato che imputazione sia questa, ha detto di non saperlo: onde se gli
dice, che oltreché si vuol sapere da lui perché ha detto quella risposta
fuori di proposito, si vuol anche sapere che imputazione è quella, che gli
vien data”. Resp.: “Io ho detto così perché non ho fallato”. Ei
dicto denuo: “Perché, interrogato
se quando passò sopra la piazza del castello col detto Baruello videro alcuno,
ha risposto prima di no, poi ha soggiunto: "Ma, signore, vi erano della
gente, che andavano innanzi e indietro"; e dettogli perché dunque aveva
detto "signor no", ha risposto: "Io m'era inteso se aveva
veduto dei nostri compagni": soggiungendo: "No, signore, siano per
la Vergine santissima, che non ho fallato"; le quali parole ultime, come
sono state fuori di proposito, non essendo egli finora stato interrogato di
alcun delitto specificatamente, così mettono in necessità il giudice di voler
sapere perché le ha dette, e però s'interroga ora perché dica, perché ha
detto quelle parole fuori di proposito con tanta esagerazione”. Resp.: “Perché non ho fallato”. Ei
dicto: “Che sopra tutte le cose che
è stato interrogato adesso si vuole più opportuna risposta, altrimenti si
verrà ai tormenti per averla”. Resp.: “Torno a dire che non ho fallato, ed ho tanta
fede nella Vergine santissima che mi ajuterà, perché non ho fallato, non ho
fallato” Tunc
jussum fuit duci ad locum Eculei, et ibi torturae sujici, adhibita etiam
ligatura canubis ad effectum ut opportune respondeat interrogationibus sibi
factis, ut supra, et non aliter etc., et semper sine praejudicio confessi et
convicti ac aliorum jurium etc.; prout fuit ductus, et ei reiterato juramento
veritatis dicendae, prout juravit etc. fuit denuo [Allora fu comandato di condurlo al luogo del
cavalletto ed ivi sottoporlo a tortura, usando anche la legatura con la
canape affinché rispondesse in modo opportuno alle interrogazioni fattegli,
come sopra e non altrimenti, ecc. e sempre senza pregiudizio del diritto del
reo confesso e convinto degli altri diritti, ecc.; fu pertanto ivi condotto
e, ripetutogli il giuramento di dire la verità, egli giurò ecc. e fu quindi]: Int.: “A risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni
già fattegli, come sopra, altrimenti si farà legare e tormentare”. Resp.: “Perché non ho fallato, illustrissimo signore”. Tunc
semper sine praejudicio; ut supra, ad effectum tantum, ut supra, et eo prius
vestibus Curiae induto jussum fuit ligari, prout fuit per brachium sinistrum
ad funem applicatus, et cum etiam ei fuisset aptata ligatura canubis ad
brachium dexferum fuit denuo
[Allora, sempre senza pregiudizio, come sopra, agli effetti di quanto sopra,
e dopo avergli fatto indossare abiti talari, si comandò che fosse legato,
quindi venne sospeso ad una fune per il braccio sinistro, dopo che anche al
braccio destro fu adattata una legatura di canape. Indi fu nuovamente]: Int.: “A risolversi di rispondere a proposito alle
interrogazioni dategli, come sopra, che altrimenti si farà stringere”. Resp.: “Non ho fallato, sono cristiano, faccia V. S.
illustrissima quello che vuole”. Tunc
semper sine praejudicio, ut supra, jussum fuit stringi, et cum stringeretur,
fuit denuo [Allora sempre senza
pregiudizio, come sopra, fu ordinato che si stringesse e, quando fu stretto,
fu nuovamente]: Int.: “Di risolversi a rispondere a proposito alle
interrogazioni dategli”. Resp.: “Ah Vergine santissima, acclamando
[gridando], non so niente”. lterum
institus ad dicendam veritatem, ut supra [Di nuovo sollecitato a dire la verità, come sopra]. Resp.
acclamando [rispose gridando]: “Ah
Vergine santissima di S. Celso, non so niente”. Ei
dicto: “Che dica la verità, se no
si farà stringere più forte: cioè risponda a proposito”. Resp.: “Ah, signore, non ho fatto niente”. Tunc
jussum fuit fortuis stringi, et dum stringeretur, fuit pariter [Fu ordinato allora di stringere più forte, e
mentre lo si stringeva, gli fu chiesto ancora]: Int.: “A risolversi a dir la verità a proposito”. Resp.
acclamando: “Ah, signore
illustrissimo, non so niente:”. Institus
ad opportune respondendum, ut supra
[Invitato a rispondere a tono, come sopra]. Resp.: “Son qui a torto, non ho fallato, misericordia,
Vergine santissima”. Inter.:
Iterum ad opportune respondendum, ut supra [Di nuovo invitato a rispondere a tono, come sopra] “che altrimenti
si farà stringere più forte”. Resp.
acclamando: “Non lo so,
illustrissimo signore, non lo so, illustrissimo signore” Tunc
jussum fuit fortius stringi, et dum stringeretur fuit denuo [Fu allora ordinato di stringere più forte, e
mentre lo si stringeva gli fu di nuovo]. Int.
ad opportune respondendum, ut supra
[Intimato di rispondere a tono]. Resp.
acclamando: “Ah Vergine santissima,
non so niente”; Tunc
postergatis manibus et ligatus, fuit in Eculeo elevatus, deinde [Allora, postegli le mani dietro il dorso, fu
sollevato sul cavalletto]. Int.:“A risolversi a rispondere opportunamente alle
interrogazioni già dategli”. Resp.
acclamando: “Ah, illustrissimo
signore, non so niente”. Int.
ad opportune respondendam, ut supra Resp.: “Non so niente, non so niente. Che martirj sono
questi che si danno ad un cristiano! Non so niente” Et
iterum institus, ut supra. Resp.: “Non ho fallato”. Tunc
ad omnem bonum finem jussum fuit deponi et abradi, prout fuit depositus; et
dum abraderetur fuit iterum
[Allora, ad ogni buon fine, fu ordinato che fosse messo a terra e che gli
fosse rasato il capo; fu quindi deposto e, mentre lo si radeva, fu di nuovo]: Int.
ad opportune respondendam, ut supra Resp.: “Non so niente, non so niente”. Et
cum esset abrasus, fuit denuo in Eculeo elevatus, deinde [E come fu rasato, lo fecero nuovamente salire sul
cavalletto, indi]: Int.: “A risolversi ormai a rispondere a proposito”. Resp. acclamando: “Lasciatemi giù, che dico la
verità”. Et
dicto: “Che cominci a dirla, che
poi si farà lasciar giù”. Resp. acclamando: “Lasciatemi giù che la dico”. Qua
promissione attenta fuit in plano depositus, deinde [Ottenuta la promessa, fu deposto a terra indi]: Int.: “A dir questa verità che ha promesso di dire”. Resp.: “Illustrissimo signore, fatemi slegare un
pochettino, che dico la verità”. Ei
dicto: “Che cominci a dirla”. Resp.: “Fu il Baruello che mi venne a trovare in porta
Ticinese, e mi domandò che andassi con lui per certo formento che era stato
rubato, e disse che avressimo chiappato un villano, che aveva lui una cosa da
dargli per farlo dormire, ma non vi andassimo”. Postea dixit [indi
disse]: “No signore, V S. mi faccia slegare un poco, che dico che V S. avrà
gusto” Ei
dicto: “Che cominci a dire, che poi
si farà slegare”. Resp.: “Ah signore fatemi slegare che sicuramente vi darò
gusto, vi darò gusto”. Qua
promissione attenta jussum fuit dissolvi, et dissolutus, fuit postea: Int.: “A dire la verità che ha promesso di dire”. Resp.: “Illustrissimo signore, non so che dire, non so
che dire; non si troverà mai che Carlo Vedano abbia fatta veruna infamità” Institus: “A dire la verità che ha promesso di dire, che
altrimenti si farà di nuovo legare e tormentare, senza remissione alcuna”. Resp.: “Se io non ho fatto niente...”. Iterum institus, ut supra. Resp.: “Signor senatore, vi sono stato a casa di messer
Gerolamo a mangiare col Baruello, ma non mi ricordo della sera precisa”. Et
cum ulterius vellet progredi jussum fuit denuo ligari per brachium sinistrum
ad funem, et per brachium dextrum canubi et cum ita esset ligatus, antequam
stringeretur [E, poiché non voleva
dire altro, fu comandato di legarlo per il braccio sinistro alla fune e per
il braccio destro al canape e, così legato, prima che si stringesse]. Int.:
“Ad opportune respondendum, ut supra”. Resp.: “Fermatevi; V. S. aspetti, signor senatore, che
voglio dire ogni cosa”. Ei
dicto: “Che dunque dica”. Resp.: “Se non so che dire”. Tunc
jussum fuit stringi, et dum stringeretur acclamavit: “Aspettate che la voglio dire la verità”. Resp.: “Che cominci a dirla”. Resp.: “Ah signore! se sapessi che cosa dire, direi”: et
acclamavit: “ah, signor senatore!”. Ei
dicto: “Che si vuole che dica la
verità”. Resp.: “Ah, signore, se sapessi che cosa dire la direi”. Et etiam institus ad
dicendam veritatem, ut supra Resp.
acclamando: “Ah signore, signore,
non so niente”. Et jussum fuit fortius stringi,
et dum stringeretur, fuit denuo: Institus: “A risolversi a dire la verità promessa, e di rispondere
a proposito”. Resp.
acclamando: “Non so niente,
signore, signore, non so niente”. Et
cum per satis temporis spatium stetisset in tormentis, multunque pati
videretur, nec aliud ab eo sperari posset, jussum fuit dissolvi et
reconsignari, prout ita factum est
[E, poiché era stato alla tortura per un tempo sufficiente ed era evidente
che soffriva molto e che d'altra parte non vi era altro da sperare da lui, fu
comandato di scioglierlo e di ricondurlo in prigione; ciò che fu fatto] VII. Come terminasse il processo delle unzioni pestifere Se
volessi porre esattamente sott'occhio al lettore la scena degli orrori
metodicamente praticati in quella occasione, dovrei trascrivere tutto il
processo, dovrei inserire le torture fatte soffrire ai banchieri, ai loro
scritturali ed altre civili persone; torture crudelissime, date per
obbligarli a confessare, che dal loro banco si dava qualunque somma di danaro
a chiunque anche sconosciuto, purché nominasse D. Giovanni di Padilla; e
danaro, che si sborsava senza averne alcuna quitanza e senza scriversi
partita ne' loro libri: e tutte queste assurde proposizioni emanate dal
forzato romanzo, che la insistenza degli spasimi fece concertare fra i miseri
Piazza e Mora. Ma anche troppo è feroce il saggio che di sopra ne ho dato, e
troppo funesti alla mente ed al cuore sono sì tristi oggetti. Dalla scena
orribile che ho descritta si vede l'atroce fanatismo del giudice di
circondurre con sottigliezza un povero uomo che non capiva i raggiri
criminali, e portarlo alle estreme angosce, d'onde l'infelice si sarebbe
sottratto con mille accuse contro se medesimo, se per disgrazia gli si fosse
presentato alla mente il modo per calunniarsi. Colla stessa inumanità si
prodigò la tortura a molti innocenti: in somma tutto fu una scena d'orrore. È
noto il crudele genere di supplizio che soffrirono il barbiere Gian-Giacomo
Mora (di cui la casa fu distrutta per alzarvi la colonna infame), Guglielmo
Piazza, Gerolamo Migliavacca coltellinajo, che si chiamava il Foresè,
Francesco Manzone, Caterina Rozzana e moltissimi altri; questi condotti su di
un carro, tenagliati in piú parti, ebbero, strada facendo, tagliata la mano;
poi rotte le ossa delle braccia e gambe, s'intralciarono vivi sulle ruote e
vi si lasciarono agonizzanti per ben sei ore, al termine delle quali furono
perfine dal carnefice scannati, indi bruciati e le ceneri gettate nel fiume.
L'iscrizione posta al luogo della casa distrutta del Mora, così dice: HIC . UBI . HAEC . AREA . PATENS . EST SURGEBAT . OLIM . TONSTRINA JO . JACOBI . MORAE QUI . FACTA . CUM . GULIELMO. PLATEA PUB . SANIT . COMMISSARIO ET . CUM . ALIIS . CONJURATIONE DUM . PESTIS . ATROX . SAEVIRET LAETIFERIS . UNGUENTIS . HUC .
ET . lLLUC . ASPERSIS PLURES . AD . DIRAM . MORTEM . COMPULIT HOS . IGITUR . AMBOS . HOSTES .
PATRIAE . JUDICATOS EXCELSO . IN . PLAUSTRO CANDENTI . PRIUS . VELLIICATOS . FORCIPE ET . DEXTERA . MULCTATOS . MANU ROTA . INFRINGI ROTAQUE . INTEXTOS . POST . HORAS . SEX . JUGULARI COMBURI . DEINDE AC . NE . QUID . TAM .
SCELESTORUM . HOMINUM RELIQUI . SIT PUBLICATIS . BONIS CINERES . IN . FLUMEN . PROJICI SENATUS. JUSSIT CUJUS . REI . MEMORIA . AETERNA
. UT . SIT HANC . DOMUM . SCELERIS . OFFICINAM SOLO . AEQUARI AC . NUNQUAM . IMPOSTERUM . REFICI ET . ERIGI . COLUMNAM QUAE . VOCETUR . INFAMIS PROCUL . HINC . PROCUL . ERGO BONI CIVES NE . VOS . INFELIX . INFAME . SOLUM COMACULET MDCXXX . KAL . AUGUSTI [Qui
dov'è questa piazza / sorgeva un tempo la Barbieria / di Gian Giacomo Mora /
il quale congiurato con Guglielmo Piazza / pubblico commissario di sanità e
con altri / mentre la peste infieriva più atroce / sparsi qua e là mortiferi
unguenti / molti trasse a cruda morte / questi due adunque giudicati / nemici
della patria / il senato comandò / che sovra alto carro / martoriati prima
con rovente tanaglia / e tronca la mano destra / si frangessero colla ruota /
e alla ruota intrecciati / dopo sei ore scannati / poscia abbruciati / e
perché nulla resti d'uomini così scellerati / confiscati gli averi / si
gettassero le ceneri nel fiume / a memoria perpetua di tale reato / questa
casa officina del delitto / il senato medesimo ordinò spianare / e giammai
rialzarsi in futuro / ed erigere una colonna / che si appelli infame / lungi
adunque lungi da qui / buoni cittadini / che voi l'infelice infame suolo /
non contamini / il primo d'agosto MDCXXX.] Come
poi subissero la pena, il canonico Giuseppe Ripamonti, che era vivo in que'
tempi, ce lo dice: Confessique isti flagitium, et tormentis omnibus
excruciati perseveravere confitentes donec in patibulum agerentur. Hi demum
juxta laqueum inter carnificis manus de sua innocentia ad populum ita dixere:
mori se libenter ob scelera alia, quae admisissent; caeterum unguendi artem
se factitavisse nunquam, nulla sibi veneficia aut incantamenta nota fuisse. Ea sive insania mortalium,
sive perversitas, et livor astusque daemonis erat. Sic indicia rerum, et judicum animi magis magisque
confundebantur. (Dopo di avere ne'
tormenti confessato ogni delitto, di cui erano ricercati, protestavano
all'atto di subire la morte di morir rassegnati per espiare i loro peccati
avanti Dio, ma di non aver mai saputo l'arte di ungere, né fabbricar veleni,
né sortilegi.) Così dice il Ripamonti, che pure sostiene l'opinione comune,
cioè che fossero colpevoli. Le
crudeltà usate da più di un giudice in quel disgraziato tempo giunsero a
segno, che più di uno fu tormentato tant'oltre da morire fra le torture: il
Ripamonti lo dice, e invece d'incolpare la ferocia de' giudici, va al suo
solito a trovame la meno ragionevole cagione, cioè che il Demonio li strangolasse.
Constitit flagitii reos in tormentis a Daemone fuisse strangulatos
[Constatava che alcuni reii del misfatto, sottoposti alla tortura, furono
strozzati dal demonio]. Il
cardinale Federico Borromeo, nostro illustre arcivescovo in que' tempi,
dubitava della verità del delitto, e in una di lui scrittura inserita nel
Ripamonti cosi disse: Non potuisse privatis sumptibus haec potenta
patrari. Regum, principumque nullus opes authoritatemque comodavit. Ne caput
quidem, authorve quispiam unctorum istorum, furiarumque reperitur; et haud
parva conjectura vanitatis est, quod sua sponte evanuit scelus, duraturum
haud dubio usque in extrema, si vi aliqua consilioque certo niteretur. Media
inter haec sententia, mediumque inter ambages dubiae historiae iter. (Non
si sarebbe co' danari d’un semplice privato potuto fare una così portentosa
cospirazione. Nessun re o principe ne somministrò i mezzi, o vi diè
protezione. Non apparve nemmeno chi fosse l'autore o il capo di tali unzioni
e furiosi disegni; e non è piccola congettura che fosse un sogno il vedere
una tale cospirazione svanita da sé, mentre avrebbe dovuto durare sino al
totale esterminio, se eravi una forza, un disegno, un progetto, che
dirigessero una tale sciagura. Fra tali dubbietà e incertezze deve la storia
farsi la strada.) Né quel solo illuminato cardinale vi fu allora che ne
dubitasse, che anzi convien dire che la dubitazione fosse di varj, poiché
tanto il Ripamonti che il Somaglia e altri scrittori di que' tempi si
estendono a provare la reità dei condannati; cosa che non avrebbero
certamente fatta, se non fosse stato bisogno di combattere un'opinione
contraria. Anzi lo stesso Ripamonti, che di proposito scrisse la storia di
quella pestilenza, per timidità piuttosto che per persuasione sostenne
l'opinione degli unti malefici, dolendosi egli del difficile passo in cui si
trova di opinare se oltre gl'innocenti, i quali furono di tal delitto
incolpati, realmente vi fossero veri spargitori dell’appestata unzione,
mostri di natura, obbrobrj della umanità e nemici pubblici; né tanto gli
sembra scabroso il passo per la dubbiezza del fatto, quanto perché non
trovavasi posto in quella libertà in cui uno scrittore possa spiegare i
sentimenti dell'animo suo, “poiché se io dirò (così il Ripamonti) che unzioni
malefiche non vi furono, tosto si griderà ch'io sia un empio e manchi di
rispetto ai tribunali. L'orgoglio de' nobili e la credulità della plebe hanno
già adottata questa opinione, e la difendono come inviolabile, onde cosa
inutile e ingrata sarebbe se io volessi oppormivi”. Eccone le parole: Caeterum
his ita expositis anceps atque difficilis mihi locus oritur exponendi,
praeter innoxio istos unctores, et capita honesta quae nihil cogitavere mali
et periculum adiere ingens, putemne veros etiam fuisse unctores, monstra
naturae, propudia generis humani, vitae communis inimicos, quales etiam isti (cioè
alcuno de' quali ha raccontato i casi) nimium injuriosa suspicione
destinabantur. Neque eo tantum difficilis ancepsve locus est, quia res etiam
ipsa dubia adhuc et incerta, sed quia ne illud quidem liberum solutumque mihi
relinquitur quod a scriptore maxime exigitur, ut animi sui sensum de
unaquaque re depromat atque explicet. Nam si dicere ego velim unctores fuisse
nullos frustra caelestes iras et consilia divina trahi ad fraudes artesque
hominum, exclamabunt illico multi historiam esse impiam, meque ipsum
impietatis teneri, judiciorumque violatorem. Adeo sedet contraria opinio
animis; pariterque et credula suo more plebs, et superba nobilitas cursu in
eam vadunt amplexi rumoris hanc auram, quomodo qui aras et focos et sacra
tueretur. Adversus hosce capessere pugnam ingratum mihi nunc, inutileque est [Ora
mi si fa innanzi un argomento incerto e difficile a svolgere; se oltre questi
innocui untori, uomini dabbene, che nulla macchinarono di male, e colsero
nonostante pericolo di vita, vi siano stati altresì veri untori, mostri di
natura, infamia del genere umano e nemici alla vita comune, siccome con
troppo ingiurioso sospetto si andava affermando. E non solo è argomento arduo
perché di dubbioso in se stesso; ma altresì perché non mi è conceduta la
libertà sì necessaria allo storico di emettere e sviluppare la propria
opinione sopra ciascun fatto. Ov'io volessi dire che non vi furono untori, e
che indarno si attribuiscono alle frodi ed alle arti degli uomini i decreti
della Provvidenza ed i celesti gastighi, molt griderebbero tosto empia la mia
storia, e me irreligioso e sprezzatore delle leggi. L'opposta opinione è ora
invalsa negli animi: la plebe credula, com'è suo stile, ed i superbi nobili
essi pure, seguendo la corrente, sono tenaci in dar fede a questo vago rumore
come se avessero a difendere la religione e la patria. Ingrata ed inutile
fatica sarebbe per me il combattere siffatta credenza]. Da ciò conoscesi qual
fosse la opinione del troppo timido Ripamonti, il quale dice: Quaestio
multiplici torsit ambage dubitantes fuerintne venena haec, et aliqua ungendi
ars, an vanus absque re ulla timor, qualia saepe in extremis malis
deliramenta animos occupare consueverunt [Gli animi ondeggiavano in molte
dubbiezze circa la questione se vi furono realmente unti ed un'arte di
spargerli, ovvero se fu uno di quei vani timori senza fondamento che spesso
fan delirare gli uomini caduti nell'estremo de' mali]; perloché evidentemente
si conosce, che malgrado l'infelicità de' tempi vi era nella città nostra un
ceto d'uomini che non si lasciarono strascinare dal furore del volgo, e
sentirono l'assurdità del supposto delitto e la falsità dell'opinione. Riepilogando
tutto lo sgraziato amrnasso delle cose sin qui riferite, ogni uomo
ragionevole conoscerà, che fu immenso il disastro che rovinò in quell'epoca
infelicissima i nosti maggiori, e che quest'ammasso crudele di miserie nacque
tutto dall’ignoranza e dalla sicurezza ne' loro errori, che formò il
carattere de' nostri avi. Somma spensieratezza nel lasciare indolentemente
entrare nella patria la pestilenza; somma stolidità nel ricusare la credenza
ai fatti, nel ricusare l'esame di un avvenimento cosi interessante; somma
superstizione nell'esigere dal cielo un miracolo, acciocché non si
accrescesse il male contagioso coll'affollare unitamente il popolo; somma
crudeltà e ignoranza nel distruggere gl'innocenti cittadini, lacerarli e
tormentarli con infernali dolori per espiare un delitto sognato. Insomma la
proscritta verità in nessun conto poté manifestarsi; i latrati della
superstizione e l'insolente ignoranza la costrinsero a rimanersene celata.
Per tutto il passato secolo si risentì in questo infelicissimo stato la
enorme scossa di quella pestilenza. Le campagne mancarono di agricoltori; le
arti e i mestieri si annientarono; e fors'anche al giorno d'oggi abbiamo de'
terreni incolti, che prima di quell'esterminio fruttavano a coltura. Si
avvilì il restante del popolo nella desolazione in cui giacque; poco rimase
delle antiche ricchezze, e non si citerà una casa fabbricata per
cinquant'anni dopo la pestilenza, che non sia meschina. I nobili
s'inselvatichirono; ciascuno vivendo in una società molto angusta di parenti,
si risguardò come isolato nella sua patria; e non si rípigliarono i costumi
sociali, che erano tanto splendidi e giocondi prima di tale sciagura, se non
appena al principio del secolo presente. Tanti malori poté cagionare la
superstiziosa ignoranza! VIII. Se la tortura sia un tormento atroce Non
può mettersi in dubbio, che nell'epoca delle supposte unzioni pestilenziali
la tortura non sia stata veramente atrocissima Ma si potrebbe anche dire che
i tempi sono mutati, e che fu allora un eccesso cagionato dalla estremità de'
mali pubblici da non servire di esempio. Io però credo che al giorno d'oggi
la pratica criminale sia diretta da quei medesimi libri che si consultavano
nel 1630, e appoggiato su questi parmi facile cosa il conoscere, che
veramente la tortura è un infernale supplizio. Col
nome di tortura non intendo una pena data a un reo per sentenza, ma bensì la
pretesa ricerca della verità co' tormenti. Quaestio est veritatis
indagatio per tormentum, seu per torturam; et potest tortura appellari
quaestio a quaerendo, quod judex per tormenta inquirit veritatem
[L'interrogatorio è l'indagine della verità per mezzo dei tormenti, ovvero
della tortura; e la tortura si può chiamare interrogatorio, essendo questo
un'inchiesta, poiché il giudice inquisisce la verità per mezzo dei tormenti]. I
fautori della tortura cercano calmare il ribrezzo, che ogni cuore sensibile
prova colla sola immaginazione del tormento. Poco è il male, dicono essi, che
ne soffre il torturato; si tratta di un dolore passaggiero, per cui non
accade mai l'opera di medico o cerusico; sono esagerati i dolori che si
suppongono. Tale è il primo argomento, col quale si cerca di soffocare il
raccapriccio, che alla umanità sveglia la idea della tortura. Pure dai fatti
accaduti nel 1630 viene delineato a caratteri di sangue l'orrore di questi
tormenti; le leggi, le pratiche sotto le quali viviamo sono le stesse,
siccome ho detto, ed altro non manca per ripetere le stesse crudeltà, se non
che ritornassero de' giudici simili a quelli d'allora. Si adopera attualmente
per tortura la lussazione dell'osso dell'omero; si adopera talvolta il fuoco
a' piedi, crudeli operazioni per se stesse, ma nessuna legge limita la
crudeltà a questi due modi; i dottori che sono i maestri di questi spasimi, i
dottori che si consultano per regola e norma de' giudizj criminali, non
prescrivono certamente molta moderazione. Il Bossi Milanese, che tratta della
pratica criminale di Milano, al tit. De Torturis, n. 2 dice: “Non
chiamerò tortura ogni dolore di corpo: la tortura debb'essere più grave, che
se si tagliassero ambe le mani; e soffrir la tortura, egli è patire le
estreme angosce dello spasimo... E basta osservare i preparativi e i modi di
tormentare per conoscerlo: niente è mite, anzi tutto è crudelissimo; e perciò
spesse volte si dà la tortura col fuoco, e quel che dice l'uomo tormentato
col fuoco si reputa la verità istessa”. (Nec quodlibet tormentum cum
dolore corporis dicitur quaestio: hinc est quod gravior est tortura, quam
utriusque manus abscissio; et pati torturam est supremas angustias sustinere,
ut vidimus et audivimus, et de his tormentis loquitur totus titulas de
quaestionibus; sic etiam loquuntur doctores quod maxime patet dum
congerunt instrumenta et modos torquendi; quia nihil horum est leve, immo
crudelissimun, et ideo etiam igne saepe rei torquentur: igne defatigati, quae
dicunt ipsa videtur esse veritas.) Dopo ciò non saprei mai come possa
dirsi, che la tortura per sé sia un male da poco. Non nego che un giudice
umano potrà temperare la ferocia di questa pratica, ma la legge non è
certamente mite, né i dottori maestri lo sono punto. Veggasi con qual
crudeltà il Zigler descrive questa inumanissima pratica “Oltre lo stiramento,
con candele accese si suole arrostire a fuoco lento il reo in certe parti del
corpo; ovvero alle estremità delle dita si conficcano sotto l'unghie de'
pezzetti di legno resinoso, indi si appiccica il fuoco a que' pezzetti;
ovvero si pongono a cavallo sopra un toro o asino di bronzo vacuo, entro cui
si gettano carboni ardenti, e coll'infuocarsi del metallo acerbamente e con
incredibili dolori si cruciano.” Tali sono i precetti che dà questo dottore,
di cui ecco le parole originali: Praeter expansionem, carnifices cutem
inquisiti cadentibus luminibus in certis corporis partibus lento igne urunt;
vel partes digitorum extimas immissis infra ungues piceis cuniculis, iisque
postmodum accensis per adustionem inquisitos excruciant; aut etiam tauro vel
asino ex metallis formato, ut incalescenti paullatim per ignes injectos,
tandemque per auctum calorem nimium doloribus incredibilibus insidentes
urgeant, delinquentes imponunt. Farinaccio istesso parlando de’ suoi
tempi asserisce che i giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i
rei, inventavano nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui
propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas
tormentorum species. Tale è la natura dell'uomo che superato il ribrezzo
de' mali altrui e soffocato il benefico germe della compassione, inferocisce
e giubila della propria superiorità nello spettacolo della infelicità altrui;
di che ne serve d'esempio anche il furore de' Romani per i gladiatori.
Veggasi lo stesso Farinaccio, ove dà il ricordo al giudice di moderarsi ed
astenersi dal tormentare il reo colle sue proprie mani; e cita chi vide un
pretore, che prendeva il carcerato pe' capelli e gli orecchi, e fortemente lo
faceva cozzare contro di una colonna, dicendogli: “ribaldo, confessa”; cosi
egli: abstineat etiam judex se ab eo quod aliqui judices facere solent,
videlicet a torquendo reos cum propriis manibus... Refert Paris de Puteo se
vidisse quemdam potestatem, qui capiebat reum per capillos, vel per aures,
dando caput ipsius fortiter ad columnam, dicendo: confitearis et dicas
veritatem, ribalde [si astenga il giudice da ciò che alcuni giudici
sogliono fare, dal torturare cioè gli imputati con le proprie mani... Paride
del Pozzo riferisce d'aver egli stesso visto un giudice che afferrava il reo
per i capelli, per le orecchie e, battendogli la testa contro una colonna,
diceva: confessa, ribaldo, di’ la verità]. Il celebre Bartolo di se stesso ci
significa, come gli accadde di rovinare un giovine robusto uccidendolo colla
tortura; quindi ne deduce che non mai si debba imputare al giudice un simile
accidente. Hoc incidit mihi, quia dum viderem juvenem robustum, torsi
illum et statim fere mortuus est; e con tale indifferenza racconta il
fatto atroce quel freddissimo dottore. Dopo ciò convien pure accordare, e
sull'esempio delle unzioni pestifere e sulle dottrine de' maestri della
tortura, ch'ella è crudele e crudelissima e che se a1 giorno d'oggi la sorte
fa che gli esecutori la moderino, non lascia perciò di essere per se medesima
atroce e orribile, quale ognuno la crede, e queste atrocità e questi orrori
legalmente autorizzati può qualunque uomo nuovamente soffrirli, sintanto che
o non sia moderata con nuove leggi la pratica, ovvero non sia abolita. Né gli
orrori della tortura si contengono unicamente nello spasimo che si fa patire,
spasimo che talvolta ha condotto a morire nel tormento più d'un reo; ma
orrori ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di amministrarla. Il
citato Bossi asserisce, che se un reo confessa invitato dal giudice con
promessa che confessandosi reo non gli accaderà male, la confessione è valida
e la promessa del giudice non tiene. Il Tabor dice che anche a una donna che
allatti si può benissimo dar la tortura, purché non accada diminuzione di
alimenti al bambino: Etiam mulieri lactanti torturam aliquando fuisse
indictam, cum ea moderatione ne infanti in alimentis aliquid decedat, quam
declarationem facile admitto. Per dare poi la tortura a un testimonio,
basta che egli sia di estrazione vile perché sia autorizzato il tormento: Vilitas
personae est justa causa torquendi testem, e il Claro asserisce che basta
vi siano alcuni indizj contro un uomo, e si può metterlo alla tortura; e in
materia di tortura e di indizj, non potendosi prescrivere una norma certa,
tutto si rimette all'arbitrio del giudice: Sufficit adesse aliqua indicia
contra reum ad hoc, ut torqueri possit... In hoc autem quae dicantur indicia
ad torturam sufficientia scire debes, quod in materia judiciorum et torturae
propter varietatem negotiorum et personarum, non potest dari certa doctrina,
sed remittitur arbitrio judicis. La sola fama basta perché, se il giudice
lo vuole, sia un uomo posto alla tortura. Basti un solo orrore per tutti; e
questo viene riferito dal celebre Claro Milanese, che è il sommo maestro di
questa pratica. “Un giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di
delitto, farsela venire nella sua stanza secretamente, ivi baciarla.
accarezzarla, fingere di amarla, prometterle la libertà affine d'indurla ad
accusarsi del delitto, e con tal mezzo un certo reggente indusse una giovine
ad aggravarsi di un omicidio, e la condusse a perdere la testa” Acciocché non
si sospetti che quest'orrore contro la religione, la virtú e tutti i più
sacri principj dell'uomo sia esagerato, ecco cosa dice il Claro: Paris
dicit, quod judex potest mulierem ad se adduci facere secreto in camera, et
eidem dicere quod vult eam habere in suam, et fingere velle illam deosculari
et ei pollicere liberationem; et quod ita factum fuit a quodam regente qui
quamdam mulierem blanditiis illis induxit ad consfitendum homicidium, quae
postea decapitata fuit. Non
credo di essere acceso da molto entusiasmo, se dico essere la tortura per se
medesima una crudelissima cosa, essere orribile la facilità, colla quale può
farsi soffrire ad arbitrio di un solo giudice nella solitudine del carcere,
ed essere veramente degna della ferocia de' tempi delle passate tenebre la
insidiosa morale, alla quale si ammaestrano i giudici da taluno de' più
classici autori. Si tratta adunque di una questione seriissima e degna di
tutta l'attenzione, e non regge quanto si può dire per diminuirne il ribrezzo
o l'importanza. IX. Se la tortura sia un mezzo per conoscere la verità Se
la inquisizione della verità fra i tormenti è per se medesima feroce, se ella
naturalmente funesta la immaginazione di un uomo sensibile, se ogni cuore non
pervertito spontaneamente inclinerebbe a proscriverla e detestarla; nondimeno
un illuminato cittadino preme e soffoca questo isolato raccapriccio e
contrapponendo ai mali, dai quali viene afflitto un uomo sospetto reo, il
bene che ne risulta dalla scoperta della verità nei delitti, trova bilanciato
a larga mano il male di uno colla tranquillità di mille. Questo debb'essere
il sentimento di ciascuno, che, nel distribuire i sensi di umanità, non
faccia l'ingiusto riparto di darla tutta per compassionare i cittadini
sospetti, e niente per il maggior numero de' cittadini innocenti. Questa è la
seconda ragione, alla quale si cerca di appoggiare la tortura da chi ne
sostiene al giorno d'oggi l'usanza come benefica ed opportuna, anzi
necessaria alla salvezza dello stato. Ma
i sostenitori della tortura con questo ragionamento peccano con una falsa
supposizione. Suppongono che i tormenti sieno un mezzo da sapere la verità:
il che è appunto lo stato della questione. Converrebbe loro il dimostrare che
questo sia un mezzo di avere la verità, e dopo ciò il ragionamento sarebbe
appoggiato; ma come lo proveranno? Io credo per lo contrario facile il
provare le seguenti proposizioni: I.
Che i tormenti non
sono un mezzo di scoprire la verità. II.
Che la legge e la
pratica stessa criminale non considerano i tormenti come un mezzo di scoprire
la verità. III. Che quand'anche poi un tal metodo fosse conducente alla scoperta della verità, sarebbe intrinsecamente ingiusto. Per
conoscere che i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità,
comincierò dal fatto. Ogni criminalista, per poco che abbia esercitato questo
disgraziato metodo, mi assicurerà che non di raro accade, che de' rei robusti
e determinati soffrono i tormenti senza mai aprir bocca, decisi a morire di
spasimo piuttosto che accusare se medesimi. In questi casi, che non sono né
rari né immaginati, il tormento è inutile a scoprire la verità. Molte altre
volte il tormentato si confessa reo del delitto; ma tutti gli orrori, che ho
di sopra fatti conoscere e disterrati dalle tenebre del carcere ove giacquero
da più d'un secolo, non provan eglino abbastanza che quei molti infelici si
dichiararono rei di un delitto impossibile e assurdo, e che conseguentemente
il tormento strappò loro di bocca un seguito di menzogne, non mai la verità?
Gli autori sono pieni di esempi di altri infelici, che per forza di spasimo
accusarono se stessi di un delitto, del quale erano innocenti. Veggasi lo
stesso Claro, il quale riferisce come al suo tempo molti per la tortura si
confessarono rei dell'omicidio d'un nobile e furono condannati a morte,
sebbene poi alcuni anni dopo sia comparso il supposto ucciso, che attestò non
essere mai stato insultato da' condannati. Veggasi il Muratori ne' suoi Annali
d’Italia, ove parlando della morte del Delfino così dice: “Ne fu imputato
il conte Sebastiano Montecuccoli suo coppiere, onorato gentiluomo di Modena,
a cui di complessione dilicatissima... colla forza d'incredibili tormenti fu
estorta la falsa confessione della morte procurata a quel principe ad
istigazione di Antonio de Leva e dell'imperatore stesso, perloché venne poi
condannato l'innocente cavaliere ad una orribile morte”. Il fatto dunque ci
convince che i tormenti non sono un mezzo per rintracciare la verità, perché
alcune volte niente producono, altre volte producono la menzogna. Al
fatto poi decisamente corrisponde la ragione. Quale è il sentimento che nasce
nell'uomo allorquando soffre un dolore? Questo sentimento è il desiderio
che il dolore cessi. Più sarà violento lo strazio, tanto più sarà
violento il desiderio e l'impazienza di essere al fine. Quale è il mezzo, col
quale un uomo torturato può accelerare il termine dello spasimo?
Coll'asserirsi reo del delitto su di cui viene ricercato. Ma è egli la verità
che il torturato abbia commesso il delitto? Se la verità è nota, inutilmente
lo tormentiamo; se la verità è dubbia, forse il torturato è innocente: e il
torturato innocente è spinto egualrnente come il reo ad accusare se stesso
del delitto. Dunque i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità, ma
bensì un mezzo che spinge l'uomo ad accusarsi reo di un delitto, lo abbia
egli, ovvero non lo abbia commesso. Questo ragionamento non ha cosa alcuna
che gli manchi per essere una perfetta dimostrazione. Sulla
faccia di un uomo abbandonato allo stato suo natura delle sensazioni si può
facilmente conoscere la serenità della innocenza, ovvero il turbamento del
rimorso. La placida sicurezza, la voce tranquilla, la facilità di sciogliere
le obbiezioni nell'esame possono far ravvisare talvolta l'uomo innocente; e
così il cupo turbamento, il tono alterato della voce, la stravaganza,
l'inviluppo delle risposte possono dar sospetto della reità. Ma entrambi
sieno posti, un reo e un innocente fra gli spasimi, fra le estreme
convulsioni della tortura; queste dilicate differenze si eclissano; la smania,
la disperazione, l'orrore si dipingono egualmente su di ambi i volti, gemono
egualmente, e in vece di distinguere la verità, se ne confondono crudelmente
tutte le apparenze. Un
assassino di strada avvezzo a una vita dura e selvaggia, robusto di corpo e
incallito agli orrori resta sospeso alla torura, e con animo deciso sempre
rivolge in mente l'estremo supplizio che si procura cedendo al dolore
attuale; riflette che la sofferenza di quello spasimo gli procurerà la vita,
e che cedendo all'impazienza va ad un patibolo; dotato di vigorosi muscoli,
tace e delude la tortura. Un povero cittadino avvezzo a una vita più molle,
che non si è addomesticato agli orrori, per un sospetto viene posto alla
tortura; la fibra sensibile tutta si scuote, un fremito violentissimo lo
invade al semplice apparecchio: si eviti il male imminente, questo pesa
insopportabilmente, e si protragga il male a distanza maggiore; questo è
quello che gli suggerisce l'angoscia estrema in cui si trova avvolto, e si
accusa di un non commesso delitto. Tali sono e debbono essere gli effetti
dello spasimo sopra i due diversi uomini. Pare con ciò concludentemente
dimostrato, che la tortura non è un mezzo per iscoprire la verità, ma è un
invito ad accusarsi reo egualmente il reo che l'innocente; onde è un mezzo
per confondere la verità, non mai per iscoprirla. X. Se le leggi e la pratica criminale risguardino la tortura come un mezzo per avere la verità Ho
stabilito di provare in secondo luogo che le leggi e la pratica istessa de'
criminalisti non considerano la tortura come un mezzo per distinguere la
verità. Ciò si conosce facilmente osservando, che non trovasi prescritto
alcun metodo o regolamento nel Codice Teodosiano, e nessuno parimenti nel
Codice Giustinianeo per applicare ai tormenti i sospetti rei. In que'
sterminati ammassi di leggi e prescrizioni, ove si sminuzzano le minime
differenze de' casi e civili e criminali, niente si prescrive per la tortura.
Se la legge adunque avesse risguardati questi tormenti come un mezzo per
iscoprire la verità, non se ne sarebbe fatta una omissione in ambo i Codici
del modo, de’ casi, e delle riserve, colle quali si dovesse adoperare.
Concludo adunque dal silenzio stesso del corpo delle leggi, che la legge non
considera la tortura come un mezzo per rintracciare la verità. Se poi il solo
argomento negativo non sembrasse bastante a dimostrar questa verità, veggasi
la legge I § 25 ff. de quaestionibus, ove ben lontano lo spirito delle
leggi romane dal riguardare la tortura come un mezzo da rinvenire la verità,
anzi vi si legge: “La tortura è un mezzo assai incerto e pericoloso per
ricercare la verità, poiché molti colla robustezza e la pazienza superano il
torrnento e in nessun modo parlano; altri insofferenti mentiscono mille
volte, anzi che resistere al dolore”. Quaestio res est fragilis et
periculosa, et quae ventatem fallat. Nam plerique patientia, sive duritia tormentorum illa tormenta
contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit; alii tanta sunt
impatientia, ut quodvis mentiri, quam pati tormento velint. Così si esprime positivamente il Digesto, e tale
era l'opinione de' Romani nostri legislatori e maestri, i quali conoscevano
l'uso della tortura sopra gli schiavi, siccome vedremo poi. Dunque la legge
non risguarda la tortura come un mezzo per la scoperta della verità Io
però ho asserito di più che non solamente la legge, ma nemmeno la pratica
criminale considera la tortura per un mezzo d'avere la verità. Pare questo un
paradosso, eppure io credo di poterlo evidentemente dimostrare. Primieramente,
se i dottori risguardassero la tortura con un mezzo per iscoprire la verità
nei delitti, non escluderebbe se medesimi dall'essere torturati, poiché è
tale l'interesse dell’umana società che i delitti si scoprano, che nessuno
può essere sottratto dai mezzi di scoprirli; in quella guisa che nessuno
sottratto de' dottori dalla pena di morte, esiglio ecc., ogni qualvolta co'
suoi delitti l'abbia meritata. Io perdonerò se ciascun cerchi di rialzare il
proprio mestiero, e non mi farà maraviglia che il Wesembeccio dica che i
dottori sono per dignità eguali ai nobili e decurioni, e per meriti eguali ai
militari: Doctores nobilibus et decurionibus dignitate, militibus autem
meritis aequiparantur; ma non sarebbe perdonabile alcuno, che osasse dare
alla propria facoltà una impunità nei delitti. Se adunque i nobili e i
dottori sono privilegiati per la tortura, segno è che non viene essa dai
criminalisti considerata come un mezzo per avere 1a verità. Secondariamente,
se i dottori considerassero la tortura come un mezzo per avere la verità,
prescriverebbero di attenervisi e considerare per certo quello che un
tormentato dice fra i tormenti. La pratica però ordina che ciò non sia
attendibile, se l'uomo qualche tempo dopo e in luogo lontano da ogni
apparecchio di tortura non ratifica l'accusa fatta a se medesimo, acciocché
non rimanga sospetto che la violenza dello spasimo abbia indotto il torturato
ad accusarsi indebitamente. Dunque la pratica stessa criminale non risguarda
lo strazio della tortura come un mezzo per avere la verità. Questa pratica si
è veduta eseguita anche sugli infelicissimi Piazza e Mora, ed è poi una
contraddizione veramente barbara quella di rinnovare la tortura all'uomo che
revochi l'accusa fattasi nei tormenti. Alcuni dottori trovano giusta una tale
alternativa indefinitivamente, per quante volte il torturato disdice l'accusa
datasi; cosicchè o deve alla fine morire di spasimo ripetuto, ovvero
perseverare anche fuori del tormento ad accusare se stesso. Altri dottori
limitano questa altemativa a tre torture, come il Claro. Se dunque la stessa
pratica criminale insegna di non credere a quanto un torturato dice in
propria accusa fra i tormenti della tortura, ma esige che l'accusa la
ratifichi con tranquillità e libero dallo spasimo, forza è concludere ad
evidenza, che la stessa pratica criminale non considera la tortura come un
mezzo da conoscere la verità. XI. Se la tortura sia un mezzo lecito per iscoprire la verità Mi
rimane finalmente da provare, che quand'anche la tortura fosse un mezzo per
iscoprire la verità dei delitti, sarebbe un mezzo intrinsecamente ingiusto.
Credo assai facile il dimostrarlo. Comincierò col dire che le parole di
“sospetti, indizj, semi-prove, semi-plene, quasi-prove ecc.”, e simili
barbare distinzioni e sottigliezze, non possono giammai mutare la natura
delle cose. Possono elleno bensì spargere delle tenebre ed offuscare le menti
incaute; ma debbesi sempre ridurne la questione a questo punto, il delitto è certo,
ovvero solamente probabile. Se è certo il delitto, i tormenti
sono inutili, e la tortura è superfluamente data, quando anche fosse un mezzo
per rintracciare la verità, giacché presso di noi un reo si condanna, benché
negativo. La tortura dunque in questo caso sarebbe ingiusta, perché non è
giusta cosa il fare un male, e un male gravissimo ad un uomo superfluamente.
Se il delitto poi è solamente probabile, qualunque sia il vocabolo col
quale i dottori distinguano il grado di probabilità difficile assai a
misuararsi, egli è evidente che sarà possibile che il probabilmente reo in
fatti sia innocente; allora è somma ingiustizia l'esporre un sicuro scempio e
ad un crudelissimo tormento un uomo, che forse è innocente; e il porre un
uomo innocente fra que' strazj e miserie tanto è più ingiusto quanto che
fassi colla forza pubblica istessa confidata ai giudici per difendere
l'innocente dagli oltraggi. La forza di quest'antichissimo ragionamento hanno
cercato i partigiani della tortura di eluderla con varie cavillose
distinzioni le quali tutte si riducono a un sofisma, poiché fra l'essere e il
non essere non vi è punto di mezzo, e laddove il delitto cessa di essere
certo, ivi precisamente comincia la possibilità della innocenza. Adunque
l'uso della tortura è intrinsecamente ingiusto, e non potrebbe adoprarsi,
quand'anche fosse egli un mezzo per rinvenire Ia verità. Che
si è detto mai delle leggi della Inquisizione, le quali permettevano che il
padre potesse servire di accusatore contro il figlio, il marito contro la
moglie! L'umanità fremeva a tali oggetti, la natura riclamava i suoi sacri
diritti; persone tanto vicine per i più augusti vincoli, distruggersi
vicendevolmente! La legge civile abborrisce siffatti accusatori, e gli
esclude. Mi sia ora lecito il chiedere se un uomo sia meno strettamente
legato con se medesimo, di quello che lo è col padre e colla moglie. Se è
cosa ingiusta che un fratello accusi criminalmente l'altro, a più forte
ragione sarà cosa ingiusta e contraria alla voce della natura che un uomo
diventi accusatore di se stesso, e le due persone dell'accusatore e
dell'accusato si confondano. La natura ha inserito nel cuore di ciascuno la
legge primitiva della difesa di sé medesimo: e l'offendere se stesso, e
l'accusare se stesso criminalmente egli è un eroismo, se è fatto
spontanearnente in alcuni casi, ovvero una tirannia ingiustissima se per
forza di spasimi si voglia costringervi un uomo. L'evidenza
di queste ragioni anche più si conoscerà riflettendo, che iniquissima e
obbrobriosissima sarebbe la legge, che ordinasse agli avvocati criminali di
tradire i loro clienti. Nessun tiranno, che io ne sappia, ne pubblicò mai una
simile; una tal legge romperebbe con vera infamia tutti i più sacri vincoli
di natura. Ciò posto chiederemo noi se l'avvocato sia piú intimamente unito
al cliente, di quello che lo è il cliente con se medesimo? Ora la tortura
tende co' spasimi a ridurre l'uomo a tradirsi, a rinunziare alla difesa
propria, ad offendere, a perdere se stesso. Questo solo basta per far
sentire, senza altre riflessioni, che la tortura è intrinsecamente un mezzo
ingiusto per cercare la verità, e che non sarebbe lecito usarlo quand'anche
per lui si trovasse la verità. . Ma
come mai una pratica tanto atroce e crudele, tanto inutile, tanto ingiusta,
ha mai potuto prevalere anche fra popoli colti e mantenersi sino al giorno
d'oggi? Brevemente accennerò quali sieno stati gli usi anticamente, come
siasi introdotta, su quai principj fondata, da quai leggi diretta; poi
qualche cosa dirò delle opinioni di varj autori e degli usi attuali di alcune
nazioni d'Europa con che crederò di aver posto fine a queste Osservazioni con
un esame generale dei diversi punti di vista, sotto i quali può
ragionevolmente riguardarsi un così tristo e così interessante oggetto. XII. Uso delle antiche nazioni sfilla tortura L'invenzione
della tortura, se crediamo a Remus e a Gian-Lodovico Vives, dovrebbe
attribuirsi all'ultimo re di Roma Tarquinio il Superbo, a Masenzio ed a
Falaride; convien lodare il criminalista Remus, poiché almeno giudiziosamente
ha trascelti tre notissimi tiranni per far cadere sopra tre tiranni
l'obbrobrio di così inumana invenzione. Sappiamo però che al tempo de'
tiranni Falaride, Nearco e Gerolamo furono posti alla tortura i più
rispettabili filosofi de' loro tempi, Zenone Eleate e Teodoro; e il filosofo
Anassarco fu crudelmente torturato per ordine del tiranno Nicocreonte. L’origine
di una così feroce invenzione oltrepassa i confini della erudizione, e
verosimilmente potrà essere tanto antica la tortura, quanto è antico il
sentimento nell'uomo di signoreggiare dispoticamente un altro uomo, quanto è
antico il caso che la potenza non sia sempre accompagnata dai lumi e dalla
virtù, e quanto è antico l'istinto nell'uomo armato di forza prepotente di
stendere le sue azioni a misura piuttosto della facoltà che della ragione. Io
prescindo dal risguardare la legislazione dei libri sacri, come la legge
dettata dall'autore stesso della natura a una nazione di cuor duro; e
considerando unicamente quel monumento come il più antico testimonio che sia
a nostra notizia de' costumi de' secoli remoti, osservo che nel sacro testo
nessuna menzione vi si fa della tortura; che anzi nel prescrivere le pratiche
da usarsi co' rei si vuole la strada della convinzione co' testimonj, né si
esige la confessione del reo. Veggasi il Deuteronomio al Cap. XIX num.
10. “Non si sparga il sangue innocente su questa terra, che Dio ti darà da
abitare, acciocché tu non sia reo di sangue”. Ed al num. 16 viene ordinato il
modo onde provare i delitti, cioè coi testimonj, e si prescrive che “un solo
testimonio non valga, qualunque sia il delitto, di cui si tratti, ma che due
o tre testimonj facciano la prova completa”. E un calunniatore “dovrà
comparire coll’accusato in faccia a Dio e de’ sacerdoti e giudici, i quali
diligentissimamente scandaglieranno entrambi, e trovata la calunnia la puniranno
della stessa pena che era dovuta al delitto falsamente imputato”. Tale fu la
legislazione criminale del popolo ebreo, dove il delitto si provò co'
testimonj, e la contraddizione fra l'accusatore e il reo con una
diligentissima ricerca dei giudici, non mai cogli spasimi della tortura. Che
mai potranno dire i fautori della tortura, che la credono necessaria al buon
governo del popolo? Il sommo legislatore avrebbe egli tralasciato un oggetto
di buon governo per il suo popolo eletto? Saranno gli uomini sotto la legge
di grazia da trattarsi più duramente che sotto la legge scritta? Sono forse i
popoli di questi secoli più induriti e bisognosi di giogo di quello che lo
erano gli Ebrei? Troviamo noi Cristiani nel Vangelo qualche seme, onde
incrudelire co' nostri fratelli? Il solo giudizio che Cristo pronunciò
durante il corso della sua vita fu per assolvere la donna che si voleva
lapidare; e i Cristiani che sono imitatori, o debbon esserlo, della vita
paziente, benefica, umana, compassionevole del Redentore, scrivono i trattati
per tormentare colle più atroci e raffinate invenzioni i loro fratelli? La
contraddizione è troppo evidente. Ritorniamo all'antichità. Presso
de' Greci egualmente che presso de' Romani fu sconosciuto l'uso della tortura
per gli uomini. Non parlo degli schiavi, i quali nel loro sistema non si
consideravano come persone, ma superficialmente come cose: in
guisa che si vendevano, si uccidevano, si mutilavano colla padronanza e
libertà medesima, colla quale si fa di un giumento, senza che le leggi
limitassero la padronanza sopra di essi. La tortura si dava ai servi, ossia
schiavi, ma non ai cittadini e agli uomini. Se fosse male o ben fatto il
degradare una porzione dell'umanità al segno de' giumenti, io non ardirei di
deciderlo. Quelle due nazioni sono state le nostre maestre, la loro grandezza
tutt'ora ci fa maraviglia, noi non siamo giunti a pareggiare la loro coltura;
e da un canto solo d'inconveniente mal si giudicherebbe del tutto insieme e
della connessione necessaria che un disordine parziale talvolta tiene colla
perfezione generale del sistema. So che quando in uno stato si voglia tenere
una classe d'uomini annientata sotto l'arbitrario potere della nazione, ogni
cosa che avvilisca e degradi quella classe sarà conforme al fine politico. Mi
trovo al punto medesimo, sul quale fu l'immortale presidente di Montesquieu,
e non saprei dir meglio che servendomi delle di lui parole: Tant d'habiles
gens, et tant de beaux génies ont écrit contre l'usage de la torture, que je
n'ose parler après eux. J'allais dire qu'elle pourrait convenir dans le
gouvernements despotiques, où tout ce qui inspire la crainte entre dans les
ressorts du gouvernement; j'allais dire que les esclaves chez les Grecs et
chez les Romains... mais j'entend la voix de la nature qui crie contre moi [Tante persone
illustri, e tanti nobili ingegni hanno scritto contro l'uso della tortura
che, dopo di loro io non oso parlare. Stavo
per dire che essa potrebbe convenire ne governi dispotici, presso i quali
tutto ciò che ispira la paura entra nel meccanismo governativo; stavo per
dire che gli schiavi presso i Greci e presso i Romani... ma sento la voce
stessa della natura che grida contro di me]. Che i Greci non usassero
tormenti contro i cittadini si scorge in Lisia Orat. in Argorat., e
Curio Forturato Retore Schol. lib. 2, e per i cittadini Romani dalla
stessa legge 3 e 4 ad Legem Juliam majestatis. Dopo che la libertà di
Roma fu soggiogata e piantata la tirannia, veggonsi esentate dalla tortura le
persone di nascita, dignità o servigi militari. Durante però la repubblica,
unicamente i servi erano sottoposti a questo strazio, non mai gli uomini
figli della patria e aventi una personale esistenza; quindi la L. 27 alla L.
Jul. de adult. § 5 dice che liber homo tortus, non ut liber, sed ut
servus existimatur [L'uomo libero torturato è considerato non libero ma
schiavo]. Veggasi Sallustio in Catilin., che pure attesta che le leggi
Romane proibivano il dare la tortura agli uomini liberi. Quindi Cicerone,
nella sua orazione Pro Silla, esclama contro l'insolita tirannia
minacciata: Quaestiones nobis servorum, et tormenta minitantur [Ci
minacciano gli interrogatori e le torture dei servi]. XIII. Come siasi introdotto l'uso di torturare ne' processi criminali La
corruzione del sistema di Roma produsse l'uso della tortura. Concentrate
nella sola persona degli imperatori le principali dignità di console, tribuno
della plebe e pontefice massimo, si annientò la repubblica e si formò il
governo dispotico, collocandosi nell'uomo medesimo il supremo comando
dell'armata, la presidenza al senato, il diritto di rappresentare la plebe e
quello di presiedere alle cose sacre, agli augurj ed a quanto moveva le
opinioni del popolo. Se in Venezia lo stesso uomo fosse comandante delle
armi, doge, avogador, inquisitore di stato e patriarca sarebbe abolita la
repubblica al momento senza alcun cambiamento di sistema: così accadde a
Roma. Da principio Cesare, poi Augusto rispettarono la memoria della libertà,
che era recente nell'animo de' Romani; poiché gradatamente s'indebolì quella,
si spanse con minor ritegno il natural desiderio ne' despoti di avere una
illimitata potenza su tutto. Quindi si procurò di rendersi ben affetta la
plebe co' donativi, cogli spettacoli, coll'abbondanza dell'annona e
coll'avvilire le cospicue famiglie consolari.. E così consolando la plebe
colla umiliazione de' nobili, l'orgoglio de' quali le era di peso, ebbero la
politica di formarsi il più numeroso partito in favore; e facendo causa
comune il principe colla plebe contro i nobili, rapironsi le sostanze degli
opulenti impunemente, onde bastare al lusso capriccioso del principe ed alla
scioperata indolenza della plebe Romana, si annientò quel numero di famiglie
le quali sole potevano servire di argine alla tirannia col loro credito e
colle ricchezze, e rimase un governo in cui uno era tutto: e il restante,
posto a bassissimo livello, di nessun inciampo poté essere alle voglie
illimitate del despota. Tale è il principio che fondò l'impero romano. È
dunque conforme a tal principio che si degradassero i nobili e i cittadini e
si pareggiassero ai servi, e quindi la tortura usata per questi ultimi soli
durante i tempi felici di Roma, fosse dilatata anche ai liberi, a misura che
la tirannia si rassodava. Quindi Emilio Fervetti assicura che non invenies
ante Diocletianum et Maximianum imperatores quaestionem unquam habitam fuisse
de homine ingenuo [non troverai prima degli imperatori Diocleziano e
Massimiano la tortura usata per gli uomini liberi]. Vi è chi asserisce che al
tempo di Carlo Magno venisse nuovamente stabilito che gli uomini liberi ne
fossero esenti. Certa cosa ella è che nessuno scrittore si trova, a quanto
so, il quale abbia trattato con un metodico esame del modo di tormentare i
rei prima del secolo XIV, il che fa conoscere, che non si risguardava la
tortura come essenziale ai giudizj criminali. Dopo quel tempo vennero gli
scrittori criminalisti, i quali se avessero scritto in una lingua meno
barbara, farebbero ribrezzo a chiunque si pregia di avere una porzione
d'umanità nel cuore. Allora fu che usciti gli uomini dalla ignoranza si
occuparono faticosissimamente nell'addestrarsi fra un inviluppo di opinioni e
di parole, e che sui rottami delle opinioni greche, arabe ed ebree si
eressero le università, nelle quali gravemente colle opinioni platoniche,
peripatetiche e cabalistiche, unite ai dettami di Avicenna e di Averroè,
s'imparò a delirare metodicamente in metafisica, in fisica, in medicina, in
giurisprudenza e in tutte le altre facoltà. Vennero poi il Claro, il
Girlando, il Tabor, il Giovannini, il Zangherio, I'Oldekop, il Carpzovio, il
Gandino, il Farinaccio, il Gornez, il Menocchio, il Bruno, il Brunoro, il
Carerio, il Boerio, il Cumano, il Cepolla, il Bossio, il Bocerio, il Casonio,
il Cirillo, il Bonacossi, il Brusato, il Follario, l'Iodocio, il Damoderio e
l'altra folla di oscurissimi scrittori celebri presso i criminalisti, i quali
se avessero esposto le crudeli loro dottrine e la metodica descrizione de'
raffinati loro spasimi in lingua volgare, e con uno stile di cui la rozzezza
e la barbarie non allontanasse le persone sensate e colte dall'esaminarli,
non potevano essere riguardati se non colI'occhio medesimo col quale si
rimira il carnefice, cioè con orrore e ignominia. Forse
la metodica introduzione de' tormenti accaduta dopo il secolo Xl trae la sua
origine dallo stesso principio, che fece instituire i “Giudizj di Dio”;
quando cioè si volle interporre con una spensierata temerità il giudizio
dell'eterno motore dell'universo nelle più frivole umane questioni; quando
col portare un ferro arroventato in mano, ovvero con immergere il braccio
nell'acqua bollente, e talvolta coll’attraversare le cataste di legna
ardenti, si decideva o l'innocenza o la colpa dell'accusato. In quella
barbarie dei tempi si credette che l'Essere eterno non avrebbe sofferto che
l'innocenza restasse oppressa, e che anzi l'avrebbe sottratta al dolore e ad
ogni danno; quasi che per le piccole nostre questioni dovesse Dio sconvolgere
le leggi fisiche da lui medesimo create, ad ogni nostra richiesta. Scemata poi
col tempo la grossolana ignoranza, sentirono i popoli la irragionevolezza di
tai forme di giudizio: e quelle del ferro, dell'acqua bollente e del fuoco
ferendo gli sguardi della moltitudine, perché fatte con solennità in pubblico
e precedute dalle più auguste cerimonie, dovettero cedere e annientarsi a
misura che progredì la ragione; laddove esercitandosi le torture nel
nascondiglio del carcere senz'altri testimonj che il giudice, gli sgherri e
l'infelice, non trovarono ostacolo al perpetuarsi, essendo per lo più
incallita la naturale compassione in chi per mestiero presiede a quelle
metodiche atrocità, deboli i lamenti di quei che ne hanno sopportato
l'orrore, e rari gli uomini, i quali riunendo le cognizioni all'amore
dell'umanità, abbiano avuto la costanza di esaminare un sì lugubre oggetto
colla lettura de' più rozzi e duri scrittori di tal materia, e la forza di
resistere al ribrezzo che porterebbe a lasciar cadere più volte la penna
dalle mani. Comunque
siasi della vera origine da cui emani la nostra pratica criminale, egli è
certo che niente sta scritto nelle leggi nostre, né sulle persone che possono
mettersi alla tortura, né sulle occasioni, nelle quali possano applicarvisi,
né sul modo da tormentare, se col fuoco o col dislogamento e strazio delle membra,
né sul tempo per cui duri lo spasimo, né sul numero di volte da ripeterlo;
tutto questo strazio si fa sopra gli uomini coll'autorità del giudice,
unicamente appoggiato alle dottrine dei criminalisti citati. Uomini adunque
oscuri, ignoranti e feroci, i quali senza esaminare d'onde emani il diritto
di punire i delitti, qual sia il fine per cui si puniscono, quale la norma
onde graduare la gravezza dei delitti, qual debba essere la proporzione fra i
delitti e le pene, se un uomo possa mai costringersi a rinunziare alla difesa
propria e simili principj, dai quali intimamente conosciuti possono
unicamente dedursi le natulali conseguenze più conformi alla ragione ed al
bene della società; uomini, dico, oscuri e privati con tristissimo
raffinamento ridussero a sistema e gravemente pubblicarono la scienza di
tormentare altri uomini, con quella tranquillità medesima colla quale si
descrive l'arte di rimediare ai mali de corpo umano: e furono essi obbediti e
considerati come legislatori, e si fece un serio e placido oggetto di studio,
e si accolsero alle librerie legali i crudeli scrittori che insegnarono a
sconnettere con industrioso spasimo le membra degli uomini vivi e a
raffinarlo colla lentezza e colla aggiunta di più tormenti, onde rendere più
desolante e acuta l'angoscia e l'esterminio. Tai libri, che avrebbero dovuto
con ragione ricoprire i loro autori di una eterna ignominia, e che se fossero
in lingua volgare e comunemente letti più che non sono, o farebbero orrore
alla nazione, ovvero spegnendo in essa i germi di ogni umana virtù, la
compassione e la generosità dell'animo, la precipiterebbero nuovamente verso
il secolo di barbarie e di ferro; tai libri, dico, presero fra la oscurità
credito, e venerazione acquistarono presso gl'istessi tribunali; e sebbene
mancanti dell'impronta della facoltà legislativa e meri pensamenti d'uomini
privati, acquistarono forza di legge, legge illegittima in origine, e servono
tuttavia per esterminio de' sospetti rei, anche nel seno della bella, colta e
gentile Italia, madre e maestra delle belle arti, anche nella piena luce del
secolo XVIII: tanto difficil cosa è il persuadere che possano essere stati
barbari i nostri antenati, e rimovere un'antica pratica per assurda che ella
possa essere! XIV. Opinione d'alcuni rispettabili scrittori intorno la tortura, ed usi odierni di alcuni stati Né
mancarono di tempo in tempo uomini illuminati, che apertamente mostrarono la
disapprovazione loro all'uso della tortura. Veggasi Cicerone nella citata
orazione Pro Silla; egli chiaramente dice: Illa tormenta moderatur
dolor, gubernat natura cujsque tum animi, tum corporis, regit
quaesitor,flectit livido, corrumpit spes, infirmat metus, ut in tot rerum
angustiis nihil veritati locus relinquatur. (La tortura è dominata dallo
spasimo, governata dal temperamento di ciascuno, sì d'animo che di membra; la
ordina il giudice, la piega il livore, la corrompe la speranza, la
indebolisce il timore, cosicché fra tante angosce nessun luogo rimane alla
verità.) Così Cicerone parlava della tortura, sebbene co' soli servi venisse
allora costumata. Veggasi S. Agostino dove tratta dell'errore degli umani
giudizj quando la verità è nascosta, de errore humanorum judiciorum dum
veritas latet, ove chiaramente disapprova l'uso della tortura: “Mentre si
esamina se un uomo sia innocente si tormenta, e per un delitto incerto dassi
un certissimo spasimo; non perché si sappia che sia reo il paziente, ma
perché non si sa se sia reo, quindi l'ignoranza del giudice ricade
nell'esterminio dell'innocente”. (Dum quaeritur utrum sit innocens
cruciatur, et innocens luit pro incerto scelere certissimas poenas, non quia
illud commisisse detegitur, sed quia commisisse nescitur, ac per hoc
ignorantia judicis plerumque est calamitas innocentis.) Quintiliano pure
accenna la disputa che eravi fra quei che sostenevano che la tortura è un
mezzo di scoprire la verità, e quei che insegnavano esser questa la cagione
di esporre il falso, poiché i pazienti tacendo mentiscono, e i deboli
sforzatamente mentiscono parlando: Sicut in tormentis, qui est locus
frequentissimus cum pars altera quaestionem vera fatendi necessitatem vocet,
altera saepe etiam causam falsa dicendi, quod aliis patientia facile
mendacium faciat, aliis infirmitas necessarium. Su tal proposito Seneca
dice: Etiam innocentes cogit mentiri: Il dolore sforza anche
gl'innocenti a mentire. Valerio Massimo tratta pure della tortura
disapprovandola. Principalmente poi il Vives, nel Commentario al citato passo
di S. Agostino, detesta la pratica della tortura ampiamente: io però ne
riferirò soltanto parte. “Io mi maraviglio”, dice quest'autore, “che noi
Cristiani riteniamo tuttavia delle usanze gentilesche, e ostinatamente le
difendiamo: usanze non solamente opposte alla carità Cristiana, ma alla
stessa umanità”. (Miror Christianos homines tam multa gentilia et ea non
modo charitati et mansuetudini christianae contraria, sed omni etiam
humanitate, mordicus retinere.) Indi soggiunge: “Qual'è mai questa
pretesa necessità di tormentare gli uomini, necessità deplorabile, e che se
fosse fattibile dovrebbe con un rivo di lacrime cancellarsi, se la tortura
non è utile, anzi se se ne può far senza, né perciò ne verrebbe danno alcuno
alla sicurezza pubblica? E come vivono adunque sì gran numero di nazioni
anche barbare, come le chiamano i Greci ed i Latini, le qual nazioni credono
feroce e orrenda cosa torturare un uomo, della di cui reità si dubita?... Non
vediamo noi ben sovente degl'infelici che incontrano la morte, anzi che poter
sopportare lo spasimo e si accusano di un delitto non commesso, certi del
supplizio, per evitare la tortura? In vero debbe aver l'animo da carnefice
chi può reggere alle lacrime, ai gemiti, alle estreme angosce espresse dallo
spasimo di un uomo che non sappiamo se sia reo. E una così acerba, così
iniqua pratica lasciamo noi che domini sul capo di ciascuno di noi?”. (Quae
est enim ista necessitas tam intollerabilis et tam plangenda, etiam si fieri
potest fontibus lacrymarum irriganda, si nec utilis est, et sine damno rerum
publicarum tolli potest? Quomodo vivunt multae gentes et quidem barbarae, ut
Graeci et Latini putant, quae ferum et immane arbitrantur torqueri hominem,
de cujus facinore dubitatur... An non frequentes quotidie videmus, qui mortem
perpeti malint quam tormenta, et fateantur fictum crimen de supplicio certi,
ne torqueantur? Profecto carnifices animos habemus, qui sustinere possumus
gemitus et lacrymas, tanto cum dolore expressas, hominis quem nescimus sit ne
nocens. Quidquod acerbam et per
quam iniquam legem sinimus in capita nostra dominari?) Né fra i criminalisti medesimi mancò mai un numero
di uomini più ragionevoli e colti, che detestarono l'uso de' tormenti: così
lo Scalerio, il Nicolai, Ramirez de Prado, Segla, Rupert, il Weissenbac, il
Wesembeccio e simili; l'ultimo chiama la tortura una invenzione diabolíca
portata dall'inferno per torrnentare gli uomini: inventum diabolicum ad
excruciandos homines de tormentis infernalibus allatum. E il Mattei nel
suo trattato De criminibus ha scritto contro l'uso de tormenti; e il
Tommassi dice, che onestamente confessa che la tortura è cosa iniqua e
indegna di un popolo cristiano: iniquam esse torturam et Christianas
respublicas non decentem cordate assero. Finalmente un trattato completo
scrisse su tal argomento Giovanni Grevio col titolo: Tribunal reformatum,
in quo sanioris et tutioris justitiae via judici Christiano in processu
criminali commonstratur, rejecta et fugata tortura, cujus iniquitatem et
multiplicem fallaciam, atque illicitum inter Christianos usum libera et
necessaria dissertatione aperuit Joannes Grevius ecc. [la Riforma del
tribunale, in cui si indica al giudice cristiano la via di una più sana e
più sicura giustizia da seguire nei processi, viene negata e messa al bando
la tortura; la cui iniquità e frequente fallacia e l'ingiusto uso che se ne
fa dai cristiani, Giovanni Grevio ha acclarato in una libera e indispensabile
discussione]. Da
questa serie d'autorità sembra bastantemente chiaro il torto di coloro, che
asseriscono che sia un nuovo ritrovato de' moderni filosofi l'orrore per la
tortura; essi non possono aspirare a questa gloria di aver i primi sentita la
voce della ragione e dell'umanità su di tale proposito; ma tanto è antica la
contraddizione a questa barbara costumanza, quanto è antico il ragionare e
l'abborrire le inutili crudeltà. Io non citerò adunque alcuno de' moderni
filosofi, contento di aver allegate le autorità di Cicerone, di S. Agostino,
di Quintiliano, di Valerio Massimo e degli altri. Resta
finalmente da conoscere, se quello che poté praticarsi presso la repubblica
degli Ebrei, presso la Grecia e presso Roma, sia eseguibile ancora ai tempi
nostri. Io su tal proposito citerò uno squarcio di quello che il re di
Prussia ha scritto nella dissertazione, Dei motivi di stabilire o
d'abrogare le leggi. “Mi si perdoni”, dice il reale autore, “se alzo la
voce contro la tortura; ardisco assumere le parti dell’umanità contro di una
usanza indegna de' Cristiani, indegna di ogni nazione incivilita, e tanto
inutile quanto crudele. Quintiliano, il più saggio e il più eloquente retore,
riguarda la tortura come una prova di temperamento; uno scellerato robusto
nega il fatto, un innocente gracile se ne accusa. È accusato un uomo; vi sono
degli indizj, il giudice vuol chiarirsene, si pone lo sgraziato uomo alla
tortura. Se egli è innocente, qual barbarie è ella mai l'avergli fatto
soffrire il martirio? Se la violenza del tormento lo sforza ad accusare se
stesso indebitamente, quale detestabile inumanità è ella mai quella di
opprimere cogli spasimi i più violenti, e condannare poi al supplizio un
cittadino virtuoso? Sarebbe men male lasciar impuniti venti colpevoli, di
quello che lo è il sacrificare un innocente. Se le leggi vengono stabilite
per il bene de' popoli, come è mai possibile che si tollerino di tali che
prescrivono ai giudici di commettere metodicamente delle azioni tanto atroci,
e che ributtano la stessa umanità? Sono già otto anni (allora che il re
scriveva, ora saranno trenta) dacché la tortura è abolita in Prussia; siamo
sicuri di non confondere il reo coll'innocente, e la giustizia non perciò ha
ella perduto punto del suo vigore”. (Qu'on me pardonne si je me recrie contre la
question. J'ose prendre le parti de l'humanité contre un usage honteux à des
Chrétiens et à des peuples policés, et, j'ose ajouter, contre un usage aussi
cruel qu'inutile. Quintilien, le plus sage et le plus éloquent des rhéteurs,
dit en traitant de la question, que c'est une affaire de tempérament: un
scélérat vigoureux nie le fait, un innocent d'une complexion faible l'avoue.
Un homme est accusé, il y a des indices, le juge est dans l'incertitude, il
veut s’éclaircir: ce malheureux est mis à la question. S'il est innocent,
quelle barbarie de lui faire souffrir le martire? Si la force des tourmens
l'oblige à déposer contre lui-meme, quelle inhumanité èpouvantable que d'exposer
aux plus violentes douleurs, et de condamner à la mort un citoyen vertueux,
contre lequel il n'y a que des soupçons? Il vaudrait mieux pardonner à vingts
soupables, que de sacrifier un innocent. Si les loix se doivent établir pour
le bien des peuples, faut-il qu’on en tolère de pareilles qui mettent les
juges dans le cas de commettre méthodiquement des actions criantes, qui
révoltent l'humanité? Il y a huit ans que la question est abolie en Prusse:
on est súr de ne point confondre l'innocent et le coupable, et la justice ne
s'en fait pas moins.) Così parla,
così attesta uno de' più grandi uomini che sta sul trono. In Prussia, nel
Brandeburghese, nella Slesia e in ogni parte della dominazione prussiana non
si dà più tortura di veruna sorta, e la giustizia punisce i rei, e la società
vi è sicura. Nell'Inghilterra
già da molto tempo non si tollera più la tortura: la legge condanna a un
genere di morte il reo che ricusa di rispondere al giudice, questa si chiama la
peine forte et dure, ma a torto chiamerebbesi tortura, poiché finisce
colla morte e non è veritatis indagatio per tormentum. Veggasi sul
proposito dell'Inghilterra il barone di Bielfeld. Dacché l'esperienza fa
vedere che nell'Inghilterra e nella Prussia i delitti si discoprono e si
puniscono, che la giustizia si esercita e la società non ne soffre, ella è
cosa quasi barbara il non abolire l'uso della tortura. Chiunque ha viscere, ed abbia
una volta veduto commettere una tal violenza alla natura umana, non può,
cred'io, essere di un parere diverso; così egli: Depuis qu'on voit en
Angleterre et en Prusse que tous les crimes se découvrent, qu'ils sont punis,
que la justice est rendue, que la société n'en souffre point, il est presque
barbare de ne pas abolir l'usage de la question. Quiconque a des entrailles,
et a vu une fois faire cette violence à la nature humaine, ne saurait
s'empêcher, je pense, d'etre de mon sentiment. Che nell'Inghilterra sia affatto abolita la tortura,
lo attesta anche il presidente di Montesquieu. Anche nel regno della Svezia
non si usano torture, se crediamo a Ottone Tabor. Nei regni d'Ungheria, di
Boemia, nell'Austria, nel Tirolo ecc., per una ordinazione degna del regno di
Maria Teresa, nell'anno 1776 restò abolito l'uso della tortura; e sulla fine
dell'anno medesimo un così umano regolamento promulgossi nella Polonia con
una legge che comincia così: “La costante esperienza dimostra quanto sia
vizioso il mezzo impiegato in varj processi criminali per venire in
cognizione della verità mediante la tortura, e nello stesso tempo quanto sia
cosa crudele il farne uso per provare l'innocenza”; quindi se ne abolisce la
pratica, e si prescrive che si debbano adoperare i soli mezzi di convinzlone. Vi
sono stati e vi sono tuttavia alcuni, i quali per ultimo rifugio ricorrono
alle locali circostanze del Milanese, ed asseriscono non potersi far senza
della tortura presso della nostra nazione. Incautamente al certo, e per
soverchia venerazione agli usi trapassati in tal guisa calunniano la nostra
patria; quasi che i cittadini nostri, d'indole oltre modo feroce e maligna,
con altro miglior mezzo non si potessero contenere se non trattandoli con
atrocità e degradandoli all'essere di schiavi; quasi che i principj di virtù
e d sensibilità fossero talmente spenti nel nostro popolo, che quei mezzi che
bastano presso le altre nazioni fossero insufficienti per noi! Io ben so che
chi fa tale eccezione non riflette alle conseguenze, che pure immediatamente
ne emanano. Chiunque conosce la nostra patria, per i nostri concittadini ne
ha un'idea ben diversa; risovvengasi ciascuno dell'epoca non molto remota,
quando la nostra benefica ed immortale sovrana Maria Teresa essendo in
pericolo di soccombere al vajuolo, stavano aperte le chiese alle pubbliche
preghiere; allora fu che ogni ceto di persone, artigiani, contadini, nobili,
plebei, tutti, posposti gli ufficj loro, a piè degli altari singhiozzando
offrivano voti all'Onnipotente per conservare i preziosi giorni di una
sovrana, alla quale la virtù, la beneficenza e il dovere hanno guadagnato i
cuori sensibili. I teneri e spontanei movimenti della moltitudine, che non
poteva essere mossa da verun fine politico, bastano a provare il sentimento
di bontà e di rettitudine che è comunemente piantato ne' cuori. No, non si
dica che i Milanesi sieno una eccezione odiosa della regola. XV. Alcune obbiezioni che si fanno per sostenere l'uso della tortura Ma
come costringeremo noi a rispondere un uomo, che interrogato dal giudice si
ostina al silenzio, se non abbiasi il mezzo di costringerlo coi tormenti?
Gl'Inglesi medesimi, che si citano per abolire la tortura, in tal caso la
costumano. Ma a ciò si risponde, che è vero che gl’Inglesi nel solo caso in
cui si ricusi di rispondere al giudice, usano “la pena forte e dura” siccome
essi la chiamano, la quale termina colla morte, lasciando cadere un
pesantissimo sasso a schiacciare intieramente il contumace; ma questa non può
chiamarsi tortura, ma bensì supplizio, al quale talvolta preferirono alcuni
di soccombere, anzi che essere giudicati rei di un delitto che portasse la
confisca de' beni, oltre la morte; essendo che le leggi del regno non
permettono che il fisco si approprj i beni di chi morì colla “pena forte e
dura”, e in tal guisa l'amore de' congiunti indusse alcuni a preferire il
silenzio e questa pena. Si dice di più, che forse gl'Inglesi hanno conservato
una porzione dell'antica barbarie col non abolire anche la “pena forte e
dura”, poiché se nelle liti civili le leggi condannano il contumace reo a
seconda delle ricerche dell'attore, bastava portare alle procedure criminali
quello stesso metodo, e riguardando il contumace a rispondere come reo
confesso condannarlo a norma delle leggi; cosi sarà tolta ogni necessità di
tormentare o chi non risponde, ovvero chi non risponde a proposito. Se il
prigioniero sarà ammonito più e più volte che il suo silenzio avrà luogo di
confessione de' delitti per i quali viene processato, non vi sarà dubbio che
si trovi chi ostinatamente cerchi di perdere se medesimo. A
questo passo replicano i sostenitori della pratica attuale: noi non abbiamo
la legge che ci autorizzi a condannare come convinto l'uomo, che si ostina al
silenzio o alla inconcludente risposta. Su di che essi hanno ragione di
sostenere, che una sola legge che abrogasse la tortura sarebbe dannosa al
corso della giustizia, qualora contemporaneamente non venisse promulgata
l'altra che dichiarasse convinto il contumace. La
nostra pratica criminale è veramente un labirinto di una strana metafisica.
Si prende prigione un uomo, che si sospetta reo di un delitto. Quest'uomo
cessa in quel momento di avere una esistenza personale. Egli è un essere
ideale posto nelle mani del fisco, il quale lo interroga, lo inviluppa, lo
spreme, lo tormenta sinché o colle contraddizioni o colle incoerenze, ovvero
colla confessione del delitto smunta col tedio del carcere, colla miseria e
colle torture, possa il fisco aver tratto da lui medesimo abbastanza per
citarlo in giudizio. Fatte tutte queste lunghe e crudeli procedure, nel qua1
tempo non è permesso al reo di essere assistito o difeso, ecco il fisco che
lo cita e lo costituisce avanti il giudice reo del tal delitto. Nei paesi più
illuminati, invece, si prende una strada più breve e naturale. Appena posto
in carcere il sospetto uomo, nel primo esame si considera cominciare il
giudizio. Gli si pone in faccia il motivo per cui si sospetta reo; gli
accusatori gli si pongono davanti, se ve ne sono. Se gli cerca ragione o
discolpa: e così facilmente, e per una via più chiara, placida e regolare si
termina ogni processo. Così si fa ne' processi militari, e così si pratica
nei due reggimenti milanesi composti certamente di soldati, i quali non sono
scelti né fra i più virtuosi né fra i più semplici del popolo; e i delitti
celeremente sono puniti, e vi è una fondata idea della rettitudine de'
giudizj ne' consiglj militari. Come
mai, dicono gli apologisti della tortura, come mai indurremo un reo a
palesare i complici senza il mezzo della tortura? Tutte queste obbiezioni
sono in fatti una perenne supposizione di quello che è il soggetto appunto
della questione. Si suppone che la tortura sia un mezzo per rintracciare la
verità. Ma anche prescindendo da questo si risponde, che un uomo che accusa
se medesimo non avrà difficoltà di nominare ordinariamente i complici; che un
uomo che nega il delitto, non li può nominare senza accusare se stesso; che
finalmente per volere saper tutto e scrivere tutta la serie della vita di un
uomo e de' delitti che ha commessi o veduti commettere, ordinariamente si
riempiono le prigioni di tanti disgraziati, e si vanno protraendo a somma lentezza
i processi. È men male l'ignorare un complice e il punire sollocitamente un
reo, di quello che sia, dopo averlo lasciato languire nello squallore del
carcere per mesi ed anni, punire più uomini di un delitto, di cui nessuno ha
più memoria: cosicché altro non vede il popolo, che la isolata atrocità che
eseguisce solennernente il carnefice. Supponiamo
che l'imperator Giustiniano fosse stato obbedito dai posteri. Egli radunò le
leggi sparse, le opinioni de' più accreditati giureconsulti romani, le
decisioni del senato, quelle del popolo, e ristringendo tutto quello che
credette utile e buono dalla sterminata mole de' libri, ne fece compilare il
Codice e le Pandette, nelle quali tutto il corpo della legislazione si
conteneva, proibendo decisamente che alcuno più non osasse farvi commenti a
scrivere per interpretarle. Se ciò fosse stato eseguito, come mai faremmo noi
i giudizj criminali? Nessuna legge vi è per ammortizzare civilmente il
prigioniero, per torturarlo, per farlo poi rivivere dopo scritto il processo.
Se non vi fossero stati il Claro, il Bossi, il Farinaccio e gli altri che di
sopra ho nominati, non si prenderebbe prigione alcun cittadino se non vi
fossero gravi sospetti della di lui reità. Questi o nascono da' testimonj che
lo accusano d'un delitto, ovvero dalla vita sfaccendata e sospetta che mena,
ovvero dalle spese che fa senza che se ne veda il come, ovvero da inimicizia
violenta e minacce contro un uomo che fu offeso, e simili. Poi si condurrebbe
il prigioniero avanti non ad un solo, ma a molti destinati a giudicarlo;
verrebbe allo stesso francamente posto in faccia il sospetto e i motivi;
s'interrogherebbe, se si tratta di un omicidio o furto, a giustificare dove
egli abbia passato le ore nelle quali fu commesso il delitto; se di un furto,
come egli abbia il danaro che se gli è trovato, e così a ciascun caso; e in
poche ore si conoscerebbe se veramente il prigioniero fosse reo, ovvero
innocente. Questo è il metodo che verrebbe usato, se nella giustizia
criminale si osservassero le sole leggi, e non una pratica fondata
illegittimamente sulle private opinioni di alcuni oscuri e barbari scrìttori.
Tale è il metodo de' processi nella Gran Bretagna, ove altresì l'uomo
accusato ha due sommi vantaggi: uno cioè di essere giudicato da persone
scelte fra i suoi pari e non incallite ai giudizj criminali; I'altro di poter
ricusare un dato numero degli eletti per giudicarlo, qualora abbia motivo di
diffidenza. Tale parimenti è il metodo che si usa nel militare anche in
Milano pei reggimenti italiani, e la giustizia fa rapidamente il suo corso
senza che si lagni alcuno di tirannia, e senza che si condannino come rei
gl'innocenti: caso che non tanto di raro avviene, quanto forse si crede. XVI. Conclusione Io ben so che le opinioni consacrate dalla pratica de' tribunali, e tramandateci colla veneranda autorità de' magistrati, sono le più difficili e spinose a togliersi, né posso lusingarmi che ai nostri sia per riformarsi di slancio tutto l'ammasso delle opinioni che reggono la giurisprudenza criminale. Credono tutti quei che vi hanno parte, che sia indispensabile alla sicurezza pubblica di mantenere la pratica vigente: la loro opinione, vera o falsa che sia, non pregiudica alla purità del fine che li move. Però conviene che gli sostenitori della tortura riflettano, che i processi contro le streghe e i maghi erano egualmente come la tortura appoggiati all'autorità d'infiniti autori, che hanno stampato sulla scienza diabolica; che la tradizione de’ più venerati uomini e tribunali insegnava di condannare al fuoco le streghe e i maghi, i quali ora si consegnano ai pazzarelli, dacché è stato dimostrato che non si danno né maghi né streghe. Tutto quello che si può dire in favore della tortura, si poteva cinquant'anni sono dire della magia. Mi pare impossibile, che l'usanza di tormentare privatamente nel carcere per avere la verità possa reggere per lungo tempo ancora, dopoché si dimostra che molti e molti innocenti si sono condannati al supplizio per la tortura: che ella è uno strazio crudelissimo, e adoperato talora nella più atroce maniera: che dipende dal capriccio del giudice solo e senza testimonj l'inferocire come vuole: che questo non è un mezzo per avere la verità, né per tale lo considerano le leggi, né i dottori medesimi: che è intrinsecamente ingiusta: che le nazioni conosciute dell'antichità non la praticarono: che i più venerabili scrittori sempre la detestarono: che si è introdotta illegalmente ne' secoli della passata barbarie: e che finalrnente oggigiorno varie nazioni l'hanno abolita e la vanno abolendo senza inconvenionte alcuno |
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